ti i tentativi di resistenza antistituzionale) e che proprio nello scusarsi di alcune omissioni ne evoca subito tantissime altre, c'è qualcosa che lascia perples~i in questa fulminea carrellata mozzafiato. Se da una parte ispira simpatia l'uso spregiudicato dei testi letterari e filosofici; dall'altra sentiamo nell'impianto generale un elemento meccanico, scolastico. Come se avessimo di fronte una tesi di laurea molto brillante, scritta con indubbia verve da una specie di superstudente, alla lunga più "narcisisticamente" innamorato di sé e delle sue doti, che preoccupato di argomentare in modo coerente. Sarebbe impossibile parlare dei moltissimi autori e temi presi in esame nel libro, con chiavi di lettura spesso originali e insolite. Soffermiamoci invece su quei capitoli in qualche modo riassuntivi dei temi presenti negli altri, e che risultano più utili ai fini delle nostre considerazioni: i capitoli sugli gnostici e su Rousseau. Nel capitolo sugli gnostici traspare tutta la simpatia ideologica dell'autore verso un movimento definito come sovversivo, in quanto contrapporrebbe un individualismo irriducibile all'autorità mondana. Per gli gnostici, ci ricorda Zweig, la salvezza è data dalla gnosi, cioè da una particolare forma di conoscenza, preludio all'"illuminazione", al risveglio di quella scintilla divina "dormiente" in ogni uomo. Ora, chi si ritiene "illuminato" si persuade di non dover più rendere conto al mondo e alle sue leggi: l'eroe gnostico del Il secolo Simon Mago, vero e proprio santo .dell'autoindulgenza, condannava il mondo e le sue leggi come ingiuste e rivendicava il diritto per gli "illuminati" di fare quello che volessero. Non è questo il luogo per una disamina dello gnosticismo, che è stato un fenomeno complesso e ancora oggi variamente interpretato. Abbiamo però l'impressione che nel seducente ritratto che ne fa Zweig gli gnostici diventino un movimento antiautoritario imparentato da vicino con i movimenti radicali degli anni sessanta, appiattendo in questo modo qualsiasi distanza storica e culturale. E anzi la stessa adesione acritica dell'autore al narcisismo gnostico ci sembra discutibile. Proprio nella figura di Simon Mago lo studioso americano individua un'ambiguità della speculazione gnostica in merito · all'amore di sé e infatti distingue tra due forme diverse di quest'amore, entrambe presenti in quella speculazione: l'amore di sé puro e generoso (che è l'amore di Dio per se stesso dato che ogni uomo reca in sé un frammento divin,o) e l'amore di sé orgoglioso e arrogan- 'tè dell'Uomo Primario, che tenta di imitare l'attQt di autorispecchiamento originario di Dio. Senza addentrarci nella cosmologia del poema gnostico-ermetico del Poimandres, qui ampiamente citato, vorremmo osservare che lo stesso amore di sé puro e creativo, che in tale concezione assume una connotazione positiva, risulta fondato su una premessa che ci sembra inaccettabile. Uamore di sé viene infatti legato a una deificazione di sé: ci si ama, ci si può amare, solo in quanto ci si sente divini. Si tratta di un amore di sé non creaturale, anzi sembra escludere la parte più "umana" dell'uomo, la sua estrema fragilità e precarietà. È stata più volte notata una certa affinità tra la visione gnostica e uno dei tratti più caratteristici della modernità, l'idea di autoredenzione, che implica una sorta di-divinizzazione dell'uomo. Ora, sarebbe troppo facile fare dell'ironia sul fallimento dei vari sogni superomistici e luciferini delle filosofie ottocentesche. Il fatto è che in questo modo si creano le premesse per l'impossibilità di amare davvero se stessi e, conseguentemente, gli altri. Se infatti l'amore di sé viene connesso all'autodeificazione, e se, come sappiamo, questa autodeificazione risulta illusoria, allora ciascuno nell'intimo della propria coscienza conserverà il terribile segreto della propria troppo umana debolezza e odierà questa debolezza perché la considererà soltanto sua. I limiti della posizione dichiaratamente "ideologica" di Zweig emergono ancora più vistosamente nel capitolo sulla setta eretica neognostica dei Fratelli del Libero Spirito: pur riconoscendone i deliri di grandezza, lo studioso ne elogia lo spirito audacemente libertario. Costoro infatti offrivano ai loro iniziati una prospettiva di autodeificazione che sfociava nel libertinismo più estremo, nella massima autoindulgenza: in quando si consideravano "illuminati", santificavano tutti i loro desideri e cosi potevano tranquillamente rubare ai deboli e agli storpi, stuprare, uccidere chiunque li disturbasse, etc. Può darsi, come dice Zweig, che tutto ciò costituisse una salutare reazione al culto medioevale dell'autorità, al dogmatismo della scolastica, alle angustie del puritanesimo, ma che senso ha presentare questa "filosofia" come positivamente sovversiva? Certo, il libro è stato scritto intorno al '68, ma questa sorta di dialettica bloccata, monca, questo puro affermarsi dell'antitesi, ha costituito uno dei vizi culturali peggiori di certo estremismo. Se riuscissimo a spingere il nostro "estremismo" ancora più in là capiremmo come gli sforturnati Fratelli del Libero Spirito fossero del tutto speculari al Potere che poi li represse. Nel capitolo su Rousseau Zweig ci ricorDISCUSSIONEP/LOARl'A da come l'amore di sé rappresentasse per il filosofo francese il piacere più naturale e necessario. Di fronte a una presa di posizione così perentoria ci sentiamo di riproporre l'obiezione più elementare a qualsiasi invito ad amarsi incondizionatamente: chiùnque, scavando dentro di sé, scopre inevitabilmente la propria "disposizione al male", l'insieme dei suoi difetti, delle sue manie e idiosincrasie. Come è possibile amare o anche semplicemente accettare questa parte di noi, le zone più oscure del nostro sottosuolo? La risposta che troviamo in Rousseau sembra avere nella sua disarmante semplicità una certa forza di persuasione: non dobbiamo negare questa parte oscura di noi, ma semplicemente assumerla come superficie esterna di una energia "naturale", assolutamente pura e innocente. Una energia che consiste nell'amore di sé, un amore al di là del bene e del male, un amore che caratterizza l' ''uomo naturale''. Tutti i guai comincerebbero per il filosofo francese con la civiltà, con il bisogno di "essere visti", di essere riconosciuti, con l'emulazione, con la competitività, con il pervertimento dell"'amore di sé" nell' "amor proprio", nella vanità. Zweig si limita qui a evidenziare la tragica impossibilità per Rousseau di una conciliazione tra amore di sé e vanità, se non nella sfera dell'immaginazione, in qualche utopia comunitaria vagheggiata. Ma forse l'errore si annida nella iniziale contrapposizione tra i due èoncetti, una contrapposizione che nell'opera di Rousseau appare più problematica di quanto vorrebbe mostrare Zweig. Se infatti, come sappiamo, !"'uomo naturale" non esiste, allora non può nemmeno esistere un amore di sé che prescinda dagli altri, dal bisogno di "vedere" e di "essere visti". La dialettica sociale, il confronto, lo stesso conflitto sono imprescindibili. Il male nasce quando il conflitto diventa il fine stesso della comunicazione, del rapporto con gli · altri. Quando questo accade si finisce con l'avere bisogno non tanto di essere amati o stimati, ma di essere ammirati e invidiati: abbiamo sì bisogno degli altri, ma solo per poterli sentire inferiori. Qui è la dimensione stessa dell'amore (sia di sé che degli altri) che viene a mancare. Ci si può amare solo se ci si sente adorati, dunque se ci si sente onnipotenti, divini. Si ama la potenza, sia se si esprima in se stessi che in qualcun altro. Si ama qualcosa che si crede e che si vuole assoluto. Ci troviamo insomma di fronte alla dimensione del potere, con i suoi stretti legami con la morte e il desiderio solitario di sopravvivenza. Ma si tratta di una dimensione mitica, irreale. Alla fine si ama l'itrealtà, e ci si ritrova soli. 21
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==