Linea d'ombra - anno II - n. 7 - dicembre 1984

poeti per la narrazione in versi. Le oscillazioni periodiche del gusto letterario ci stanno riportando, se non sbaglio, su questo terreno o nei suoi immediati dintorni. I segnali più chiari in questa direzione vengono da Giovanni Giudici e da Attilio Bertolucci. In loro l'opzione narrativa, per quanto posta su basi molto dissimili, è del tutto esplicita e il filo del racconto non è certo lasciato nelle mani del critico che interpreta e ricostruisce: è saldamente nelle mani del poeta. Traducendo in versi l'Onieghin di Puskin, Giudici indica il "suo" classico moderno e mette alla prova le straordinarie risorse mimetiche e cinetiche del suo linguaggio di poeta: l'ironia malinconica, il gioco realistico e l'arguzia psicologica, la sfida ininterrotta lanciata dalla musica delle parole alle innumerevoli dimensioni del mondo narrato. Come esempio di narratore in versi, Giudici è molto lontano da Bertolucci. In Giudici, più astutamente (e fin dall'inizio: perché la sua lirica è sempre anti-lirica, cioè comico-realistica, o comico-patetica e teatrale) il tessuto narrativo è presupposto. È messo tra parentesi, consegnato agli spazi bianchi, alle pause fra poesia e poesia, a una serie di visibili o invisibili puntini sospensivi. Il gioco dell'alternanza e dell'escursione fra livelli e registri stilistici gli permette una folta messa in scena di episodi, premonizioni e memorie, e un fitto intersecarsi di voci in concertato o in controcanto (Lume dei tuoi misteri, Mondadori 1984, è la prova più prossima). Da venti anni a questa parte Giudici è forse il più alacre e inventivo sperimentatore di forme della poesia italiana (ballata, epigramma, satira, elegia, mottetto, ecc.). Il romanzo in versi di Bertolucci è un'impresa di tutt'altro genere. Nonostante la sua estraneità all'ermetismo, Bertolucci dispone di un sistema stilistico compatto e unitario, selettivo e filtrante, monolinguistico, che non permette sbalzi, attriti e alternanze di tono. Se è vero che la sua poesia ha sempre avuto qualcosa di dolcemente prosastico (si veda anche Sirio, la sua primissima raccolta ripubblicata da poco), è altrettanto vero che la sua "prosa in versi" è attenuante e sommessa, distanzia anche gli oggetti più prossimi avvolgendoli in un velo di sensualità contemplativa e malinconica. Cronista di quei minimi eventi dell'epos famigliare che tendono a prendere vibrazioni proustiane, ora Bertolucci affronta la ricostruzione e la tessitura di un vero e proprio continuum narrativo (La camera da letto, Garzanti 1984). Una esposizione interessante delle ragioni dell'impresa si legge nel risvolto di copertina firmato dall'autore. Bertolucci evoca le controindicazioni che l'estetica dominante nella poesia moderna (da Edgar Allan Poe e Baudelaire fino all'ermetismo) ha elaborato nei confronti del poema. La sua sfida si rivolge dunque anche contro tale estetica, a cui Bertolucci in notevole misura è rimasto estraneo fin dalle sue origini, ma che ha condizionato a fondo tutta la sua generazione. Perché il poeta non dovrebbe uscire dalla prigione della pura intensità momentanea, cercando di strappare al monopolio dei romanzieri quel personaggio fond~mentale di ogni "storia di vita" che è il Tempo? ~· Ma la consapevolezza con cui Bertolucci ha affrontato un'impresa così ardua sembra unà consapevolezza più storica e ,. DISCUSSIONE/BERARDINELLI di ispirazione personale che una consapevolezza stilistica. È infatti proprio il personaggio-Tempo a sottrarsi più di una volta alla presa del suo stile. Se non si adotta la prosa con il suo duttile sistema di transizioni, allora i versi con cui viene raccontata una storia devono risuonare come versi molto più intensamente e chiaramente che in una poesia breve. Il verso libero usato da Bertolucci lascia invece perplessi. Mentre in tutta la sua opera precedente non ci eravamo mai chiesti perché l'autore "va a capo'' ad un certo punto della frase (Bertolucci ha sempre avuto un orecchio infallibile nell'uso del verso libero con rime e assonanze libere), ora, nel romanzo in versi, questa domanda tende a risuonare fastidiosamente nella testa del lettore, che dopo qualche pagina si trova già disorientato e un po' annebbiato da un flusso narrativo a volte poco decifrabile e dai confini incerti. Ciò che finisce per interessare di più non è perciò il flusso, la continuità, il tessuto del racconto ma, ancora una volta, gli squarci, i frammenti più riusciti e lavorati, le singole poesie che il lettore cerca spontaneamente di isolare e di ritagliare, conferendo loro quello spicco lirico a cui il poetanarratore rinuncia. Ad una costruzione narrativa labile per troppa libertà, si accompagna dunque una scelta metrica fin troppo congrua: cioè altrettanto labile per troppa libertà. E questo aumenta il disagio di chi legge, dandogli troppo spesso l'impressione di non avere a che fare né propriamente con un romanzo, né con dei veri versi. Bertolucci ha avuto coraggio. Non ha soltanto ubbidito a un impulso profondo della sua ispirazione, ha anche lavorato a ritrovare un genere poetico degno proprio oggi della massima attenzione. La poesia sente periodicamente il bisogno di misurarsi con qualche istanza (epica, drammatica - e perfino giornalistica: i casi di Montale e Pasolini parlano chiaro in proposito) che la costringa ad allargare il suo orizzonte esplorativo e le sue dimensioni strutturali. Bertolucci è stato giustamente festeggiato per questo dalla critica. Ma gli autori che saranno in grado di farlo, potranno imparare dalle sue incertezze non meno che dalla sua riuscita. ... ,\!K..:"" -·-~~ 17

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