discussione dere la fede non solo in Dio, ma nell'umanità, nella vita, in un qualsiasi ordine. E ciascuno di noi probabilmente sa, come Pierre, che non è in suo potere tornare ad avere fede nella vita. Il lavoro, la scienza, il pensiero stesso sono oggi ancora più lontani da quell'ideale su cui la Weil non si stancò di meditare fino alla sua morte. Il personaggio tolstoiano tornerà ad avere fede nella vita attraverso una esperienza di povertà estrema, di totale spoliazione, qual è quella della prigionia di guerra. Dunque attraverso una esperienza che non poteva prevedere né tantomeno programmare. Perché si dia una qualche trasformazione dentro di noi occorre che vi sia qualcosa, fuori di noi, che interagisca con la nostra coscienza, scuotendola o illuminandola. Ma, detto questo, ho l'impressione che il tipo di cultura attualmente dominante nel nostro paese (ma non solo... ), cultura che per lo più si pretende di emancipazione, non costituisca per così dire la precondizione migliore di esperienze individuali e collettive realmente emancipatorie. Ho in mente un certo linguaggio e senso comune, un certo stile intellettuale e di ragionamento, un privilegiamento quasi monomaniacale di certi autori e temi, etc ... Chi mostra di credere in qualcosa viene terroristicamente ridotto al silenzio. Come dice Girard nelle pagine conclusive di Dellecosenascostesin dalla fondazione delmondo), si nega autoritariamente qualsiasi autorità e dogmaticamente qualsiasi certezza. Un senso di cupa noia e di aridità sembra awolgere qualsiasi testo. L'educazione e l'esempio, che la Weil aveva raccomandato nel '43 al gruppo francese a Londra per risvegliare e ispirare la resistenza antinazista, sono oggi screditati, in partenza. Credo invece di dissentire da Girard quando invoca, in modo un po' predicatorio anche se sicuramente corrispondente ad una sua esperienza, "un ritorno del religioso", quasi come soluzione taumaturgica dei problemi o comunque punto di svolta su un percorso di apocalisse certa. Certo Girard ci invita a non cercare il "religioso" tra i miseri resti che si richiamano ancora al cristianesimo. Però resta il fatto che il "religioso" si è allontanato dalla coscienza e dalla esistenza degli uomini in modo credo irreversibile per ragioni complesse, legate anche ad una prospettiva di emancipazione dell'umanità. Non si è trattato di una deviazione improwisa, di una oscura parentesi di follia. E anzi mi sembra che sia un errore identificare l'intera 'modernità' con l'idea titanica di un'autoredenzione dell'umanità, con il sogno luciferino di una totale autosufficienza dell'uomo (sogno che nei romanzi di Dostoevskij è diventato quell'incubo che conosciamo). Nella modernità infatti trovano posto anche un senso laico del limite, unapietas per l'uomo che nasce proprio dal riconoscimento della sua estrema precarietà e debolezza, una consapevolezza scettica dell'inevitabile sconfitta cui va incontro in definitiva qualsiasi progetto, individuale e collettivo (consapevolezza che non conclude necessariamente nella rassegnazione o in un'inerzia fatalistica). Certo il pensiero laico quando parla di limite non si riferisce a qualcosa di sovrannaturale, di sovrumano, che sarebbe ben arduo decifrare per qualsiasi uomo e, d'altra parte, la stessa Weil indica nel limite la "legge del mondo manifestato" (pag. 322, Ql). Dunque un 'limite' connaturato alla condizione umana e che qui ed ora molti, o pochi, uomini concorrono a definire attraverso una comunicazione il più possibile libera dal dominio e capace di ridare un contenuto alla razionalità partendo dalla stessa autoconservazione e dalle domande più elementari sulla vita. Non esiste nessuna 'natura' cui riferirsi con certezza, nessuna 'prima radi26 - FilippoLa Porta
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