discussione ma perché risulta probabilmente più 'umana' e realistica l'ipotesi di una enorme varietà di attività e vocazioni diverse, piuttosto che la celebre utopia marxiana dell'uomo nuovo che al mattino va a pesca, poi a caccia, poi la sera studia, etc. Lo studioso americano non si illude sulla effettiva possibilità di arrivare ad una situazione di totale eliminazione dell'invidia, dal momento che ogni valutazione di sé sarà sempre comparativa e che quindi, pensando alla quantità di attributi che un uomo può invidiare ad un altro, ci saranno sempre "enormi opportunità di stima di sé differenziali". Comunque la Weil avrebbe concordato con la necessità, postulata da Nozick, di eliminare certe 'dimensioni' come dimensioni importanti, si trattasse pure della 'dimensione' costituita dalla lotta e dall'impegno per realizzare questo obiettivo. Forse un elemento di diversità tra la Weil e Nozick sta nel fatto che quest'ultimo mi sembra eludere, o comunque non esplicitare abbastanza, il fondamento ultimo di un ideale egualitario, fondamento che non può essere 'metafisico', non interamente riducibile a razionalità. L'uguaglianza, comunque si voglia motivarla, resta in ultima istanza un'ipotesi, una 'finzione', una opzione morale, tra le tante possibili. Come ben sapeva Alain, uno dei maestri della Weil (che poi se ne allontanerà) credere che tutti gli uomini sono uguali, e comportarsi di conseguenza, è una scelta "di pace", contro l'ineguaglianza naturale, contro il libero gioco della pura forza (cfr. Cento e un ragionamenli). E, in uno dei suoipropos, quello sulla religione, il filosofo francese, che restò sempre fedele ad un radicale immanentismo, scrisse che "la famosa scommessa che dopo Pascal ha preso tante forme, è un'idea laica (Propos sur la religion). Vorrei infine ricordare come i discorsi della Weil intorno alla 'comune' condizione degli uomini, non potrebbero mai essere interpretati come proposte di collaborazione tra le classi, come invito a riconoscere l'armonia qui ed ora, nella società non-armonica. Mettendo per ora da parte tutte le questioni riguardanti i modi e le forme della trasformazione, i metodi di lotta, etc., mi sembra che i discorsi della Weil intendono soprattutto ribadire come qualsiasi lotta, qualsiasi opposizione o dissenso, dovrebbero svolgersi coerentemente entro una certa cultura, entro una certa visione della realtà, che ad esempio esclude da sé il disprezzo come l'ammirazione, che è risoluta a trattare la "forza", comunque si esprima, come un meccanismo naturale ma impersonale (e non invincibile). La forza e la grandezza Per la Weil l'ostacolo più grave che ci separa da una forma di civiltà che valga qualcosa è "la nostra falsa idea di gi:andezza" (Weil, PR p. 19). Un'idea di grandezza che ispira i libri di storia e che è fondata sulla concezione che della storia hanno i vincitori, i potenti. Grandezza come capacità di dominio e di distruzione, come delitto. Bisognerebbe invece per la Weil avere un'idea di grandezza legata allo spirito di verità, di giustizia e di amore, un senso della grandezza che escluda Hitler come Napoleone. Altrimenti non avrebbe senso punire Hitler, che si è solo comportato coerentemente con gli esempi di grandezza che aveva incontrato sui libri. Da questo punto di vista un libro come Guerra e pace è davvero un unicum, almeno nella cultura di quel periodo. Sappiamo che il personagggio di 22 - FilippoLa Porta
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