Linea d'ombra - anno II - n. 5/6 - estate 1984

esseredefinibile e questa sua estraneità ai soliti giri non la rendono attraente per il giovane intellettuale nostro contemporaneo, né mobilitante o nobilitante. Insomma, se un limite la rivista ha è, secondo me, quello di non dar fastidio a nessuno. Non mi pare una bella cosa ... Ti scrivo dal mio "rifugio" provinciale. Anch'io, come tanti, mi sono ritirato, dopo le batoste della seconda metà degli anni Settanta, l'agonia e morte del movimento nello sfascio e nello sbando. Faccio parte di quella generazione un po' più giovane della tua e forse per questo più soggetta col '68 a entusiasmi privi di distanza, convinta di essere nel giusto qualsiasi cosa facesse e, ahimé, pronta poi a seguire, proprio per questa sua superficialità, i risorgenti miraggi del leninismo; di quella generazione che non ha retto alla fine delle illusioni e ha dimostrato in mille modi la sua fragilità e inconsistenza morali e politiche. Non ho, come altri, fondato radio libere, imbracciato le armi, viaggiato alla ricerca del guru giusto; salvo qualche spinello, non mi sono neanche drogato, e ho resistito bravamente alla tentazione di andare in analisi o di partecipare ai seminari di Verdiglione e Fagioli. Come molti altri, ho pensato invece che fosse più utile e più interessante ripartire dall'idea dutschkiana (ricordi con che avidità leggevamo il vecchio Rudi, cercando risposta ai nostri dilemmi pre-partitici?) della "lunga marcia attraverso le istituzioni", e ho scelto come campo d'intervento la scuola. Coi risultati che puoi immaginarti. Le istituzioni sono ossi duri, sfiancano le fibre più forti, e alla lunga devo concludere che la mia aspirazione a cambiare qualcosa dal mio piccolo e a "far figli" (a tirar su le nuove generazioni in modi più aperti, dando loro più chiarezza e più spina dorsale di quanta noi non ne avessimo, abituandole a vivere le contraddizioni con lucidità e con rigore senza perdere di vista gli obiettivi della "liberazione di tutti") sono un fallimento. Un altro. Le vedi, le nuove generazioni? A me discussione sembrano poco di meglio che carne da macello per future guerre locali o mondiali e, paragonate alla nostra, di un egoismo arido quanto mediocre. Non è tutta colpa loro, certamente, ma ti assicuro che è molto insolito trovarvi qualcuno che osi guardare più in là del proprio naso. Quanto a colpe, dovremmo parlar prima delle nostre. Personalmente, a dire il vero, non me ne riconosco tante. Ho cercato di fare quello che potevo, e non mi sono riciclato come giornalista o borsista, non ho preso sul serio ogni "dernier cri" dell'intellighenzia post-'68, non mi sento responsabile per i modi in cui il movimento è andato in malora - non ho molto simpatizzato, per esempio, per gli "strani studenti" del '77 o tantomeno per Toni Negri. Nel mio piccolo, l'ho detto ad alta voce. Ne ho guadagnato un progressivo isolamento, ma di esso potrei essere, in certa misura, perfino un po' orgoglioso, visto cosa hanno fatto tanti nostri "compagni di corteo" (molti dei quali, e dovevamo accorgercene molto prima, in realtà nemici nostri e dei movimenti). Bisognava forse parlare a voce ancora più alta, gridare, costituirsi come minoranza più attiva, osare di più e rischiare di più. Se una colpa alcuni hanno avuta, anche te forse, è stata quella di aver avuto paura dell'isolamento, e quindi di essere stati da un lato troppo ingenui e gregari, e dall'altro troppo astuti e "tattici". Perché, diciamocelo, che le cose, mandate avanti in quel modo, sarebbero finite male, in qualche modo lo sapevamo o almeno lo sospettavamo, e sarebbe stato nostro dovere proclamarlo occasione per occasione, man mano che ci nascevano insofferenze e sospetti. Superate le tempeste, la quiete ci ha lasciato le delizie del "privato", ancor più nauseanti quando teorizzate dagli ex. Ognuno si consola come può e come vuole, ma a me il privato non è mai bastato, l'autocoscienza di coppia e di gruppo mi ha donato solo amarezze (come a tutti coloro che baldamente hanno SaverioEsposito - 219

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