Linea d'ombra - anno II - n. 5/6 - estate 1984

discussione passibile ma impersonale, che nessuno possiede fino in fondo e irreversibilmente, che nessuno può illudersi di dominare (pensiamo al generale Kutuzov, che si limita a controllare gli effetti della "forza", semplicemente assecondandone i movimenti con piccoli aggiustamenti). Qui il discorso sulla forza si incontra con quello sull'uguglianza. Scrive la Weil: "Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso (La Grecia... ). La maggioranza degli uomini "ignorano" o vogliono "ignorare" il potere cieco e capriccioso della "fortuna" e della "necessità", che sono due tra le tante forme che può assumere la forza. Con il risultato di erigere tra loro una barriera iniormontabile: "Rimane il bisogno di subire ciò che si è fatto subire agli altn, per ristabilire con essi una reciprocità e una comunicazione", aveva scritto negli stessi anni della Weil Merleau-Ponty in Umanesimo e terrore. Il fatto è che per poter squarciare il velo di quella "ignoranza", per poter guardare oltre l"'abisso" di disuguaglianza che effettivamente separa gli uomini tra loro, è necessaria, sul piano individuale, una quantità e qualità di immaginazione morale che, come vedremo anche in Tolstoj, è il prodotto incerto e mai garantito di situazioni-limite. La Weil parla, sempre nello scritto sull'Iliade, di "momenti luminosi, momenti brevi e divini nei quali gli uomini hanno un'anima", momenti di grazia, precari ed effimeri, in cui ci si sottrae all'imperio della forza attraverso la solidarietà, l'amore e l'amicizia. Momenti in cui intravediamo ciò che "la violenza fa e farà perire". Non si tratta, mi pare, di un appello moderato al 'debole' perché abbia pietà verso il 'forte'. L'uguaglianza anzi si presenta qui come un compito, come un obiettivo, per salvare tutto quello che "la violenza fa perire". L'invito a vedere come tutti siano ugualmente esposti al male e all'azione della forza, deve mostrarci quanto le differenze e gli squilibri della civiltà attuale siano artificiosi e innaturali. La Weil aggiunge però che è comunque necessaria una "battuta d'arresto da cui solo può nascere il rispetto verso il prossimo", la capacità di suscitare nell'incessante svolgersi della propria esistenza "un lieve intervallo ove si inserisce il pensiero. E dove non ha dimora il pensiero non ne ha la giustizia né la prudenza". Non si tratta di una richiesta 'facile' da esaudire. La possibilità stessa di una pausa, di un breve intervallo sembra essere storicamente ridotta (se non proprio bruciata) dalla progressiva scomparsa di ogni interiorità e di ogni autonomia dell'individuo nella moderna società di massa. Le "battute d'arresto" individuali, quando sono in qualche modo permesse, vengono quasi sempre duramente penalizzate. Chi si ferma è perduto. Persino il pensiero filosofico ci invita, con educazione solo apparente, a limitarci a rispettare le regole del gioco che presiedono ai vari linguaggi confinando il pensiero (che può rivelarsi negli "intervalli") nella sfera inoffensiva del privato. Pierre, di fronte all'apparizione di quella "cosa" sui volti dei soldati francesi, conclude che può solo "aspettare" impotente. Ma non sempre è dato di "aspettare". Nell'attesa può infatti avvenire qualcosa di irreparabile. La Weil allude in diversi punti della sua opera ad una possibile cultura di riferimento, risultata poi perdente o minoritaria all'interno della tradizione occidentale. Un cultura che include anche la conoscenza scientifica e che nel suo pensiero è giocata come contrapposizione della tradizione diciamo FilippoLa Porta - 19

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