Linea d'ombra - anno II - n. 5/6 - estate 1984

narrativae memoria pe funebri, il manifesto con l'annuncio, le corone, la comunicazione della notizia ai parenti. Sono venuti proprio tutti, anche quelli emigrati verso monte e non verso la città, quelli che non si erano mossi per visitare gli ammalati, ma hanno affrontato il viaggio per seppellire i morti. I figli dei cugini di mio padre, e i loro figli; i vecchi allievi di mia madre, e i loro figli. Sono venute le figlie di mia cugina, che sono sui vent'anni e non avevano ritenuto di sospendere una (costosissima) festa di compleanno in discoteca, un mese prima, per la morte della nonna, e non sospendono certo le feste per la morte della prozia. Ma i riti sono riti, e me li hanno fatti rispettare, loro, fino all'ultimo. Anche se la camera ardente la prepara con pezzi di rapido smontaggio un'agenzia (che, come scoprirò fa pagare esattamente la somma deducibile dalle tasse, così lui ci guadagna e tu non protesti) il rituale, quello pagano e quello cattolico, è lo stesso di sempre, fino alla caricatura. Le ragazzine mi hanno preso da parte, tra una piangente e un gruppo di conversanti (gli uomini, come in chiesa, stanno a parte, dopo una rapida apparizione davanti al morto, a parlare di calcio, di politica, di affari) e mi hanno annunciato, con scandalo, che non c'erano i soldi nella borsa. Che soldi? Le monete, monete metalliche che bisogna mettere, insieme con un fazzoletto, nella borsa della morta, o nelle tasche del morto (le banconote probabilmente Caronte non le conosce). Mio fratello non vuole mettere i soldi. Possono mettere i soldi? Certo, mettano pure i soldi. Ma chi resta per la veglia? Io resto per la veglia. No, tu sei maschio, non vale. Ho cercato di insistere e alla fine ho contrattato un turno con mio fratello. Prima a letto io, fino alle quattro; poi a letto lui. Tutto inutile. Quando l'ultima vecchietta è sparita verso l'una le ragazzine si son piantate lì e non c'è stato verso di mandarle a casa. Alle quattro mi sono alzato, ma inutilmente. Mi hanno tenuto compagnia fino alle sette, quando è ricomparsa una donna e solo allora sono sparite, con le facce totalmente distrutte, perché a vent'anni le notti in bianco forse si sopportano meglio, ma si vedono di più. L'impresario di pompe funebri, che ti constringe anche lui a rispettare le regole ormai canoniche per murare, perché nessuno seppellisce più il caro estinto, sanno benissimo però che qui i morti li portano i parenti e viene perciò da solo, col carro funebre. Quindi per le stesse ripide scale strette per cui ho portato la bara di mio padre, quindici anni fa, porto con un fratello e due cugini quella di mia madre. C'è una vecchia saggezza in questa faccenda. La fatica fisica scarica molto e non c'è niente di meglio per ridare il senso della vita che portare la bara di un morto per quattro piani di scale molto strette, e possibilmente in orizzontale. Francesco Ciafaloni (Teramo 1937) collabora a riviste politiche, storiche e sindacali, ed è stato redattore di "Quaderni piacentini" e della casa editrice Einaudi. Vive a Torino dalla metà degli anni Sessanta. 162 - FrancescoCiafaloni

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