Linea d'ombra - anno II - n. 5/6 - estate 1984

narrativae memoria ogni artefatto, a costo di ogni mutilazione, per soprawivere ancora un minuto, è legittima. Ma qui tutto costringe a scegliere il minuto di più. Forse è nella natura delle cose, ma forse invece in quella della superstizione. Il contesto dei visitatori e dei medici, dei parenti e degli infermieri, sembra avere una superstiziosa e irrazionale fiducia, che è il contrario della scienza, in ciò che viene fatto. Se ciò che viene fatto non ha successo, cioè se il paziente muore, vuol dire che si è sbagliato qualcosa. Questo spesso è vero, perché l'ospedale ammazza soprattutto i sani, e tra tanti salassi e infinite trasfusioni di fluidi, poi capitano sempre lo shock anafilattico, il plasma di epatitico grave finito per isbaglio nel frigorifero di quelli buoni, il collasso, il gruppo sbagliato, il tubo sbagliato, che mandano al creatore persone destinate altrimenti a sopravvivere decenni (o destinati appunto a morire di shock anafùattico, colti al volo al termine della inutile fuga ad Isfahan). Ma a me è capitato di vedere il buio e l'orrore diffondersi sulle facce di un coro di medici e parenti che commentavano tra lo sgomento e l'ira l'irresponsabile disattenzione di un 'infermi era che aveva lasciato esaurire la flebo di potassio (una delle varie bottiglie rovesciate connesse in permanenza alle vene che non tengono più, e perciò l'ago non si può togliere) alle tre di notte, ad una mia zia, diabetica gravissima, che non riconosceva più, con una gamba già amputata e l'altra in cancrena, con piaghe da decubito, senza memoria, almeno per gli ultimi settant'anni, che non voleva mangiare neppure imboccata, che, in tutti i modi, non voleva vivere, che nessuno amava, e che è morta, completa di potassio, il giorno dopo. Allora la discussione si è spostata sul mancato pronto intervento del defibrillatore. Il commento, il coro, sono la funzione principale del complesso universo dei visitatori. Ma non la sola. In effetti nella visita ai malati si costituisce una società, si ristabiliscono o si stabiliscono rapporti, si ribadiscono gerarchie, amicizie e inimicizie, si intreccia una multiforme e impensata rete di comunicazioni, soprattutto sulla malattia o le malattie, i malati, i guariti, i morti. Questa società mi si è rivelata, nota ed estranea insieme, nei lunghi giorni di assistenza, d9po che mi ero reso conto dello stato delle cose, avevo capito che di una morte si trattava, e, rispondendo ad un ri!Tussonon so se molto arcaico (mio padre per se stesso si era comportato così) o molto moderno e laico, avevo smesso di fare alcunché, salvo il rispettare le regole, anche assurde, perché almeno non ci fossero preoccupazioni, sgradevolezze, perché morisse in pace. A questa società ho quindi fatto, a settimane alterne, da portinaio e da spettatore muto, un privilegio questo che mi sono guadagnato da adolescente e che ormai fa parte della normalità e non turba la pace. Non mi sembra una società semplicemente italiana e contemporanea, come lo è il modo di amministrare la scienza. Le grandi città, i 160 - FrancescoCiafaloni

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