Linea d'ombra - anno II - n. 5/6 - estate 1984

narrativae memoria Francesco Ciaf aloni Unamortein una città Negli ultimi anni ho pensato spesso che il mondo sociale e culturale in cui sono nato, quello dell'Appennino centrale, non esistesse più. Era crollata la base economica: l'agricoltura di sussistenza e la mezzadria, i cereali, le viti, gli ulivi, gli orti, i rari alberi da frutta, le sempre più rare querce. Si era disfatta la società. Tutti eravamo partiti. A metà degli anni cinquanta avevo lasciato il paese, già decimato dall'emigrazione bracciantile e contiguo a case isolate, ad altri paesi più a monte, già abbandonati, deserti, corrosi dalla pioggia e minacciati dalle frane. Nei rari ritorni, per anni, avevo trovato le case sempre più vuote, per nuove partenze e nuove morti, di vecchiaia, di malattia, di lavoro. L'arenaria delle case è fragile, dalle mie parti, e torna in polvere, e l'argilla è solubile e viscida. I paesi fanno presto a confondersi con le frane e la macchia. A metà degli anni settanta mi sono reso conto di essere partito dal nulla. Il paese non esisteva più. La gente che non era andata lontano ma era solo scesa a fondovalle o in città non rassomigliava più al paese. Persino la lingua, '' che è dura tanto'', anzi soprattutto la lingua, sembrava sparita. Se per caso non riuscivo a ricordare una parola del dialetto vero, non la caricatura dell'italiano con il pesante accento delle mie parti che si parla in città, mi toccava chiederla alle vecchiette, neanche fossi un glottologo o uno storico orale. (Come si dicono le scintille del camino? li /ani'. E il diavolo, quello di Paolo VI? Eh, no! non lu diavule, come pensa ogni cittadino urbanizzato delle due sicilie, ma bensì Jabbikk' come in K' tt' s' puzza ngul/à Jabbikki, che vuol dire "va' al diavolo".) Mi sono chiesto se potessi essere ancora definito un parlante indigeno del mio dialetto, perché se uno non parla più in un gruppo che lo capisce, come si fa a sapere se lui ricorda bene o male, e se quello che lui ricorda è ancora un dialetto? Anche la casa dove sono nato era ormai deserta. Dichiarata inabitabile da ben più di un quindicennio, dalla fine degli anni '40, per terremoto e frana, lesionata, ingobbita, era alla fine, rimasta vuota. Non senza problemi, anche mio padre e mia madre erano scesi in città. E in città, anche in una piccola città, in una desolata periferia di caFrancescoCiafaloni - 153

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==