Numero 5/6 - Speciale estate 1984 - lire 6.500 trimestrale di narrativa WEIL - CANETTI - RULFO - CORTAZAR HIGHSMITH - PONIATOWSKA - CARTER SCRITTRICI NERE USA PRATOLINI - GARZANTI - ADDAMO POESIA: LOWELL - YEATS - GILDE BIEDMA CAPRONI - FORTINI - FASSBINDER sped. in abb. postale - gr. IV0 - 70% - Media Edizioni - Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano
..
sommano Simone Weil Tre interventi degli anni di forma · 5 Filippo La Porta Su alcuni temi in Simone Weil e in 14 Robert Lowell Tre poesie 28 W.B. Yeats Due poesie 41 G. Stieg/R. Sorin Domande a Elias Canetti 43 Juan Rulfo La vita fa brutti scherzi · 54 Julio Cortazar Alcuni aspetti del racconto 58 Elena Poniatowska Una piccola favola 71 Patricia Highsmith La vittima 75 Angela Carter Mise-en-scène di un parricidio 81 Giorgio Caproni Due poesie 100 Vasco Pratolini Ritorno a Firenze 103 Franco Fortini Per un altro "ospite ingrato" 107 Maurizio Perugi Appunti su Giovanni Giudici 112 Franco Cordelli 117 Alfonso Berardinelli Poeti e pubblico. R.W. Fassbinder Quattro canzoni per Ingrid Caven 127 Livio Garzanti Sangue e paura 132 Sebastiano Addamo L'ombra e l'altra faccia 143 Francesco Ciafaloni Una morte in una città 153 Jaime Gil de Biedma Sei poesie 163 Maria Nadotti Black American Women Writers 172 Toni Cade Bambara. Il ragazzo col martello 180 Gloria Naylor Kiswana Browne 185 Lucio Zanasi Pace con gli scoiattoli 194 Federigo De Benedetti Tre racconti 203 Maria Maderna L'ultimo Handke 207 Gianfranco Bettin Luna spaesata sul lago morente 212 Saverio Esposito Tutti i colori del limbo 218 LIBRI DA LEGGERE 224 Le illustrazioni di questo numero sono di Frans Masereel tratte dal volume "La città. Un viaggio appassionato" (Mazzotta Editore, 1979). Le foto di R. W. Fassbinder e di Ingrid Caven sono di Fulvia Farassino; quelle che illustrano il racconto di Juan Ru(f o_sono dello stesso Rulf o.
Comitato di redazione: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Severino Cesari, Grazia Cherchi, Pino Corrias, Goffredo Fofi, Piergiorgio Giacchè, Filippo La Porta, Claudio Lolli, Maria Maderna, Claudio Piersanti, Renzo Sabellico, Marino Sinibaldi, Paola Splendore, Giorgio van Straten Direttore: Goffredo Fofi Coordinamento editoriale: Lia Sacerdote Segreteria di redazione: Massimo Kaufman, Mariolina Vatta Direttore responsabile: Severino Cesari MATERIALE INVIATO: I manoscritti, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si scusa con coloro che ci hanno inviato racconti se non a tutti è stato ancora risposto. Il numero dei plichi recapitatici è molto superiore alle nostre previsioni. Essi vengono suddivisi tra i vari redattori, che ne rendono conto in riunioni bimestrali, scambiandosi quelli giudicati interessanti. Non possiamo più garantire una risposta entro quattro mesi, ciascuno di noi essendo occupato in altre attività, prevediamo ne occorrano sei, ma tutto il materiale viene vagliato e a tutti sarà risposto. Consigliamo di evitare raccomandazioni, invii plurimi, invio di poesie, sollecitazioni epistolari o telefoniche. "LINEA D'OMBRA" Un numero lire 5.000 Numero speciale lire 7.000 Abbonamenti: L'abbonamento a quattro fascicoli è di lire 20.000, da versare sul conto corrente postale numero 25871203 intestato a "Linea d'ombra". Iscrizione al tribunale di Milano in data 5-2-1983 - numero 55 L'immagine di copertina è tratta dal quadro di Mario Schifano Vero Amore smalto su tela (1975). Editore: Media Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Telefono 02/2711209-273891 Coordinamento editoriale: Edoardo Fleischner, Lia Sacerdote Pubblicità: Marco Fiorentino Telefono 02/2711209-273891 Composizione e montaggi Monica Ariazzi Ufficio Grafico Carlo Canarini Segreteria: Paola Barchi Stampa: Litourich sas Via Puccini, 6 - Buccinasco (MI) Telefono 02/4473146 Numero 5/6 - Lire 6.500 Chiusura in tipografia il 29-5-84 Di questo numero sono stampate 6.000 copie
apertura Simone Weil Tre interventi degli anni di formazione a cura di Domenico Canciani Durante il 1983, a quarant'anni dalla morte, si è ripreso a parlare di Simone Weil (1909-1943), a confrontarsi con il suo non facile pensiero. Si è potuto verificare che, dal '50 ad oggi, la Weil ha avuto numerosi e disparati lettori, numerose e contrastanti letture. Pur con qualche notevole eccezione, si è trattato però di letture settoriali, prevalentemente agiografiche, o di scorribande alla periferia del suo pensiero, di letture-pretesto. Ora sembrano caduti, o per lo meno non appaiono più cosi compatti, gli steccati ideologici epolitici che intralciavano una lettura globale, rispettosa dell'intero itinerario weiliano. Questa nuova stagione di interesseper la Weil, può contribuire ad avviare o afar proseguire una paziente opera di ricostruzione storica, volta a liberarla dal personaggio che la nasconde o la imprigiona, per restituirla a se stessa e al suo tempo. Lungo questa direzione ha inteso muoversi la ricerca di D. Canciani, parzialmente pubblicata, sul finire dell'83, dalla Cleup di Padova col titolo Simone Weil prima di Simone Weil. Gli anni di formazione di un'intellettuale francese degli anni '30. Ora, in opuscolo a parte, come materiale d'appoggio a un corso universitario sugli intellettuali francesi negli anni '30, sta per essere presentata una breve silloge di testi inediti o minori, redatti dalla Weil tra il '27 e il '34 (Simone Weil avant Simone Weil. Fragments inédits et écrits militants, 1927-1934, transcrits et introduits par D. Canciani). Da questa silloge abbiamo scelto tre testi che possono documentare la precocità dell'apparire di alcuni fondamentali temi weiliani. Ricordiamo che le opere maggiori di Simone Weil sono state pubblicate in italiano dalle Edizioni di Comunità, e che presso l'Adelphi sono in corso di pubblicazione i Taccuini, a cura di Giancarlo Gaeta. Simone Weil - 5
apertura Riflessioni sul servizio civile Si tratta di un abbozzo inedito, probabilmente redatto da Simone Weil durante l'estate del 1928 allorché desiderava compiere una esperienza di lavoro in un campo organizzato dal Servizio Civile. Non potendo esservi accolta, come i suoi compagni di corso Chateau e Ganuchaud, per svolgere un lavoro "da uomini", Simone è costretta a rinunciarvi; ciò non le impedisce però di riflettere sull'importanza e sul significato dell'iniziativa. Il testo mette l'accento particolarmente sul rapporto che unisce lavoro e pace: in una variante del brano qui · tradotto Simone Weil molto efficacemente afferma che "solo il lavoro è pacificatore". Lavoro e contemplazione sono i due poli del pensiero. In altri termini, lavoro e religione, strumenti e segni. La religione fa emergere l'amore, mentre il lavoro fa emergere il diritto, il rispetto della persona umana, l'uguaglianza, ed è per questo che la cooperazione fa emergere questa rude amicizia che niente può sostituire. Cantare in un coro, vuol dire avvertire la potenza dei propri simili, non riconoscere i propri uguali. Il segno è divino; ognuno si sottomette al segno; i segni hanno valore per noi, e non viceversa. Il lavoratore riconosce il proprio simile e se ne sente riconosciuto. Solo i lavoratori formano una repubblica. Per questa ragione è il lavoro, non la religione o l'amore, che costituirà e costituisce il fondamento della pace. Si può dire che il lavoro, diversamente dalla religione o dalla famiglia, separi gli uomini ma non come la ricerca del cibo separa gli animali. Io pongo l'altro lavoratore come mio uguale, proprio nel momento in cui lo oppongo a me. Non uniti, non concordi, come danzatori o cantori, ma tutti liberi, tutti sovrani, non preoccupati di accordarsi con l'altro, pronti a riconoscere nell'altro la stessa assenza di preoccupazione, e perciò fiduciosi dell'altro. Da qui quella rude amicizia, quasi priva di affetto. È questa amicizia che realizza la pace. Non gli affetti che tengono unita la famiglia, gli amanti, un certo tipo di amici o gli uomini che praticano la stessa religione, lottano nello stesso partito, tutta gente che di fatto o metaforicamente, canta insieme. Tutti questi affetti si nutrono fin troppo di quel delizioso accordo che genera tutte le guerre. Per questo i difensori della pace non possono riunirsi in cerimonie religiose, per cantare o parlare insieme, perché per degli uomini che la pensano allo stesso modo su un'idea, anche solo parlare di questa idea equivale sempre a cantare insieme; possono ritrovarsi solo per lavorare. Ecco il Servizio Civile... 6 - Simone Weil
apertura Dopo la visita di una miniera Simone Weil dal 1931 al 1934 collabora regolarmente al settimanale "L'Effort", organo di azione sociale e di difesa sindacale. Si tratta, come nel caso di quello qui tradotto, pubblicato il 19 marzo 1932, di brevi articoli, centrati sui problemi de/l'educazione operaia, dell'unità sindacale, dello sfruttamento operaio, del macchinismo ... Essi fanno luce sulla primissima stagione di impegno politico e sociale della Weil, sul suo breve "sogno di una cosa". Questo, in particolare, illustra un caso significativo di sfruttamento operaio e di asservimento totale dell'uomo alle esigenze disumane della macchina. La Weil non si limita a una mera descrizione: ci offre un primo esempio di quella capacità di penetrare e trasformare in una espressione lucida un 'esperienza vissuta, capacità di cui di Il a poco darà prova soprattutto nel Diario di fabbrica. Allo stato attuale della produzione, la miniera è il fondamento della nostra società industriale; la sua posizione al di sotto della dimora degli uomini è l'immagine del posto che occupa oggi nella gerarchia dei lavori. E non v'è dubbio che il minatore su cui tutto poggia, sia, tra tutti i lavoratori,. quello che soffre più duramente, più pericolosamente, per il salario più basso. Chi ha l'occasione di scendere per la prima volta in una miniera, ha la sensazione di penetrare nel cuore del proletariato. Una volta disceso, si ritrova in un mondo a parte, separato dal mondo dei vivi. Lassù, i lavori, il riposo, il godimento, l'ozio si trovano confusi. Qui, siamo nel puro dominio della produzione. Qui, tutto è lavoro. Ogni movimento è uno sforzo. Si percorrono gallerie che d'improvviso si alzano e si abbassano nell'oscurità debolmente illuminata da una lampada, e di colpo si sbatte la testa per non essersi curvati in tempo; si inciampa contro il terreno che bruscamente si alza; si percorrono con le gambe fiaccate e il corpo interamente piegato in due, centinaia di metri in salita; si scendono discese scivolose e rapide; il calore, la mancanza d'aria rendono talvolta la respirazione penosa; in breve, l'uomo si scontra qui ad ogni istante con una materia ostile, che incessantemente impone una fatica. - In questo mondo separato, non si incontra mai nulla che possa offrire alla natura umana tranquillità, riposo, o godimento; qui si incontrano solo uomini sempre intenti a vincere la materia, lassù, sulla terra, nei campi e nelle città, il luogo di lavoro confina con i luoghi dove si mangia, si passeggia, si dorme; il lavoratore si trova, in un modo o nell'altro, confuso con gli inattivi, con i quali lui stesso, durante certe ore del giorno, si confonde. Simone Weil - 7
apertura Qui, nel mondo sotterraneo, gli uomini esistono solo in quanto lavoratori, e incontrano solo i compagni di lavoro e l'oggetto del lorro lavoro. Tutto ciò che li circonda rappresenta sofferenza o pericolo. Non scorgono nulla che non ricordi ai loro occhi il loro tragico destino. In queste tenebre, dove la luce è solo uno strumento di lavoro, si immagina che debba risvegliarsi una coscienza, più lucida che altrove, della condizione operaia, della sua forza, della sua dignità misconosciuta, della fraternità che unisce i lavoratori di fronte a ciò che trae profitto dal lavoro. Si pensa che qui debba sbocciare un cameratismo eroico, originato dalla solidarietà di fronte alla sofferenza e al rischio. C'è una sorta di grandezza nelle sofferenze di cui la miniera è teatro. E così infatti andavano le cose, almeno fino al giorno in cui il progresso della produzione non ha introdotto qualcosa di nuovo, che pare capace non solo di opprimere ancor più con nuove sofferenze ma persino di sminuire quella grandezza. Si tratta del macchinismo. Per quanto dura sia sempre stata la condizione del lavoratore, tuttavia il minatore che scagliava il suo piccone sul carbone poteva ancora agire da uomo libero. Era lui a determinare il ritmo del lavoro; lui a trionfare sulla materia mediante uno strumento conforme al suo corpo. Oggi il dramma non si gioca più tra il carbone e l'uomo, ma tra il carbone e l'aria compressa. È l'aria compressa che spinge, secondo il ritmo accelerato che le è proprio, il martello compressore contro la barriera di carbone, è lei che si ferma, e spinge di nuovo. L'uomo, costretto a prendere parte a questa lotta di forze gigantesche, ne rimane schiacciato. Aggrappato al martello compressore o alla perforatrice, scosso in tutto il suo corpo, al pari della macchina, dalle veloci vibrazioni dell'aria compressa, per tutto il tempo si limita a mantenere la macchina contro la barriera di carbone nella posizione richiesta. In precedenza lui adattava la forma e il moto dello strumento alla forma e alla durata naturale dei suoi movimenti; il piccone era per lui una sorta di membro supplementare che faceva corpo con lui, amplificando il movimento delle sue braccia. Ora è lui a far corpo con la macchina, ad agganciarsi a lei, alla stregua di un ingranaggio supplementare vibrando della sua trepidazione incessante. Questa macchina che non è modellata sulla natura umana, ma al contrario sulla natura del carbone e dell'aria compressa, e i cui movimenti seguono un ritmo profondamente estraneo al ritmo dei movimenti della vita, piega con violenza il corpo umano al suo servizio. E questa situazione, che si rivela insopportabile dopo solo cinque minuti, il minatore la deve subire per giorni e giorni, e per otto ore al giorno. Non basterà certo al minatore espropriare le Compagnie per diventare padrone della miniera. La rivoluzione politica, la rivoluzione economica saranno reali solo a condizione di essere proseguite da 8 - Simone Weil
apertura una rivoluzione tecnica, la quale ristabilirà, all'interno della miniera e della fabbrica, il dominio che il lavoratore ha il compito di esercitare sulle condizioni del lavoro. · Lettera a un'allieva Lettera inedita, scritta dalla Weil, probabilmente tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno del 1934, ad una sua allieva del Corso di filosofia durante il primo anno di insegnamento a Le Puy (1931-32). Simone Pétrement, amica e principale biografa della Weil, neriporta ampi stralci a conclusione del primo volume della vita (La vie de Simone Weil, 2 voi., Paris, Fayard, 1973); e in effetti essapuò essere letta come un bilancio, prima di intraprendere l'esperienza in fabbrica. Traduce in termini pedagogici alcune delle riflessioni che la occuparono maggiormente durante tutto il 1934, poi confluite nel suo testo maggiore intitolato Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale. I grandi miti del suo tempo sono lucidamente presi di mira, ipericoli maggiori incisivamente evocati, non però allo scopo di costringere in una impasse teorica e pratica, ma piuttosto per stimolare alla ricerca e alla lotta, per ritornare a essere attori responsabili in un mondo apparentemente avviato verso la catastrofe. Cara piccola, sono veramente contenta di ricevere tue notizie. Credo, come te, che andiamo verso una dittatura. Tuttavia l'effervescenza fascista nell'Alta-Loira è solo un fenomeno locale. Nell'insieme del paese, i gruppi fascistizzanti si mantengono notevolmente tranquilli, mentre, al contrario, il governo si mostra singolarmente indulgente verso l'agitazione socialista e comunista. La ragione è la seguente: il ''fronte comune" social-comunista, che ha coinciso con l'entrata della Rusia nella Società delle Nazioni, è quasi unicamente il propagandista dello Stato russo in Francia e il sostegno dell'alleanza militare francorussa. I socialisti hanno completamente dimenticato tutti i casi di oppressione esercitati dallo Stato russo, che pure solo qualche mese fa denunciavano ancora. Per quanto concerne la lotta contro il militarismo francese, l'oppressione coloniale ecc... , i socialisti e comunisti la proseguono ormai su un tono sempre più blando, in attesa di farla finita (anche se continueranno a lanciare qualche parola d'ordine, ma ciò è privo di interesse). Al contrario, se la guerra scoppia, socialisti e comunisti ci spediranno alla morte per la "patria dei lavoratori", e 10 - Simone Wei/
apertura rivedremo i bei giorni della union sacrée. I gruppi fascisti invece sarebbero in gran parte favorevoli a una alleanza militare con la Germania contro la Russia. Qualsiasi alleanza militare è odiosa, ma una alleanza con la Germania sarebbe senz'altro il male minore; infatti in quel caso una guerra tra la Germania e la Russia (con in più forse il Giappone) resterebbe in qualche misura localizzata; invece se la Francia e la Russia si alleano contro la Germania e il Giappone, avremo di nuovo un incendio che si estenderà a tutta l'Europa e oltre, una vera e propria catastrofe. Tu capisci che questo genere di considerazioni non mi rende fascista. Però mi rifiuto di fare il gioco dello stato-maggiore russo col pretesto della lotta antifascista. Quanti ragazzi verseranno il loro sangue nei mesi a venire, credendo di farlo per la libertà, il proletariato ecc... , mentre in realtà sarà solo per l'alleanza militare franco-russa, e di conseguenza per preparare la guerra. Stando così le cose, sono fermamente decisa a non aver più niente a che fare in campo politico e sociale, con due sole eccezioni: la lotta anticoloniale, e la lotta contro gli esercizi di difesa passiva. In breve, ecco come io vedo l'avvenire: ci troviamo all'inizio di un periodo di dittatura più centralizzata e più oppressiva di quante ne ricordi la storia. Ma lo stesso eccesso di centralizzazione indebolisce il potere centrale. Un bel giorno (forse lo vedremo, forse no) tutto precipiterà nell'anarchia, e si ritornerà a forme quasi primitive di lotta per la vita. A quel punto, nel mezzo del disordine, gli uomini amanti della libertà potranno lavorare a fondare un ordine nuovo, più umano del nostro. Non possiamo prevedere come sarà (se non che dovrà essere necessariamente decentralizzato, poiché la centralizzazione uccide la libertà), ma possiamo fare quanto è in nostro potere per preparare questa civiltà nuova. Io penso dunque che, per quanto non ci sia possibile compiere nessuna azione, per quanto in larga misura siamo ridotti, come tu dici, a un ideale negativo, possiamo e dobbiamo fare un lavoro positivo. Da questo punto di vista, a mio avviso, il lavoro più importante è costituito dalla volgarizzazionedelleconoscenze, e in particolare delle conoscenze scientifiche. La cultura è oggi un privilegio che conferisce il potere alla classe che lo detiene. Sforziamoci di scalzare questo privilegio ricollegando le conoscenze complesse alle conoscenze più volgari. È per questo motivo che devi studiare, e soprattutto la matematica. Del resto, quando non si è avuto modo di esercitare lo spirito alla ginnastica della matematica, si è incapaci di pensieri precisi, che è quanto dire che non si è capaci di nulla. Non starmi a dire che non sei dotata, non è un ostacolo, anzi direi che è quasi vero il contrario. Mi scrivevi di aver fretta di uscire da questa vita irreale e di trovarti alle prese con le necessità materiali dell'esistenza. Ma, ahimé !, Simone Wei! - 11
apertura rari sono oggi coloro che hanno modo di scontrarsi con questa "necessità", soprattutto nella tua generazione. . Infatti, messi a parte coloro che si ritrovano il pane già cotto, i più sono in preda all'angoscia della disoccupazione, a una avvilente dipendenza in cui non è dato vedere ak:una "necessità", ma solo una fatalità opprimente contro la quale non si ha neppure più la forza di lottare. Se non vuoi rimanere all'infinito alla mercé dei tuoi genitori, hai bisogno di un mestiere. Devi pensarci fin d'ora. A mio avviso, invece di perdere il tuo tempo al Liceo (che non approda proprio a niente, devi credermi, anche se si passa la maturità), faresti meglio a prepararti per entrare alla Scuola Normale. Sei ancora in tempo, non è vero? Ma devi fare presto. Sai come è bello far la maestra in un paesino qualunque? È ancora uno dei mezzi migliori che hai per entrare realmente in contatto con il popolo. Se questo non ti piace, cerca qualcos'altro. Ma mettiti bene in testa, e·possibilmente anche in quella dei tuoi genitori, che quando si esce dal Liceo con la maturità in tasca (e a più forte ragione senza la maturità), si è nè più nè meno sul lastrico. Un tempo essere sul lastrico poteva voler dire esser costretti ad arrangiarsi e a scontrarsi coraggiosamente con le necessità materiali. Oggi vuol dire essere costretti a una qualche forma di mendicità (vivere a carico dei propri genitori quando si ha l'età per guadagnare la vita, è una forma di mendicità), e a consumare il tempo in quell'occupazione vl_.lotam, assacrante, avvilente che si chiama: cercare una posizione. Credimi, veramente nessuno può capire meglio di me la tua aspirazione a una vita reale, poiché la condivido. Eppure la peggior crudeltà del nostro tempo è costituita proprio dal fatto che è difficilissimo dare un significato concreto a queste parole. Nel frattempo, qualunque cosa tu faccia - anche se resti al Liceo -devi convincerti che la regola più importante sta nel far bene quello che si fa. Con questo non voglio dire, lo capisci bene, che tu ti debba comportare come una piccola allieva modello. Ma poiché ti si offrono delle possibilità di istruirti, utilizzale al massimo, a modo tuo. Poco importa che i tuoi voti siano buoni o cattivi. Ma guardati bene dall'uscire dal Liceo senza aver realmente assimilato alcune nozioni di matematica, di fisica, di storia. Non ti sto a parlare del francese, poiché so che per questo ci si può fidare di te. In fatto di stile non prestar fede a nessun consiglio: imita i buoni modelli e evita la "letteratura". Del resto, anche per la storia, devi farti uno spirito critico. Fa in modo di metterti bene in mente i fatti principali; per quanto riguarda l'interpretazione dei fatti, i manuali sono pieni di menzogne; più avanti avrai modo di studiare con profitto opere di veri storici. Ugualmente, per la scienza, non lasciarti mai convincere di aver capito ciò che non capisci... 12 - Simone Weil
apertura Fammi aver notizie del tuo lavoro, delle tue letture (senza dimenticare tutto il resto ... ). E anche della tua classe. Il vostro bel cameratismo esiste sempre? E a questo proposito, ti sei decisa a dire alle tue compagne la verità sulla Russia. Se sì, ciò avrà seriamente abbassato il morale di molte. Ho preso un congedo di un anno per lavorare un po' per me, e anche per entrare un po' in contatto con la famosa ''vita reale''. Del resto, puoi ben immaginare che se il Ministero della Pubblica Istruzione va avanti di questo passo, non avrò certo modo di invecchiare nell'insegnamento. Sono stata individuata. Tra due o tre anni, e forse anche prima, sarò quasi immancabilmente esonerata. Scrivimi di tanto in tanto. Non potrò risponderti ogni volta, ma mi farà sempre piacere ricevere tue notizie. Affettuosamente Simone Weil (traduzione di Domenico Canciani) BIANCA GUIDETII SERRA Le schedatureFIAT Cronaca di un processo e altre cronache Prefazionedi Stefano Rodotà . Rosenberg&Sellierp, agine160, lire 10.000
discussione Filippo La Porta Su alcuni temi inSimoneWeil e inTolstoj Introduzione Credo che in tutta l'opera di Simone Weil sia così forte e urgente l'esigenza di trovare un 'radicamento' alla cultura (nel mondo, nell'esperienza, nella natura stessa), l'esigenza di farla uscire "dall'atmosfera limitata e irrespirabile nella quale si trova chiusa", che non è possibile accostarvisi senza interrogarsi sulle proprie stesse motivazioni, sui modi e le forme della propria ricerca intellettuale, sulla natura delle sedi in cui questa ricerca abitualmente si svolge (convegni, riviste, università). Leggendo la Weil ci si trova continuamente di fronte a domande radicali e ineludibili, che premono esplicitamente per una rifondazione della stessa civiltà in cui abitiamo. Non intendo in quest_omodo stendere intorno alla Weil un'aura di intoccabilità, ma credo che, trattandosi di una 'voce' così diversa dalle voci che ci sono familiari, sarebbe innanzitutto utile farla pazientemente risuonare per un po' dentro di noi, in silenzio, per vedere soltanto cosa succede. Non ho intenzione di prescrivere un metodo buono per tutti. Sto solo parlando di un'esperienza molto personale di lettura. Ma ho avuto l'impressione, da certi articoli sulla Weil apparsi ultimamente, che le sue appassionate e urgenti domande vengano sistematicamente neutralizzate o eluse. E che la 'voce' stessa della Weil, ridotta ad un suono sottile e opaco, stenta a distinguersi dalla voce, peraltro sempre perentoria e (apparentemente) chiara, dell'estensore dell'articolo. 'Radicare' il pensiero nel lavoro, evitare i pensieri che non raggiungono l'oggetto, affrontare solo difficoltà che si incontrano effettivamente, avere a che fare con ostacoli reali, dunque anche ineludibili. L'antiintellettualismo della Weil non è mai demagogico, non è mai cinico richiamo al principio di realtà. Si esprime soprattutto come richiesta di una 'concretezza' del · pensiero, che può essere data solo da un rapporto con la 'necessità'. E poi come protesta contro un uso della cultura puramente 'corporativo', come strumento cioè di autoriproduzione di ceto (di potere e di privilegi). Vorrei qui introdurre subito il confronto che più in là tenterò di proporre. Tolstoj in un suo scritto teorico poco conosciuto parla del rapporto tra ragione e comportamento. Personalmente credo che un uso della 'ragione' (intendendo con questo termine semplicemente le proprie facoltà intellet14 - FilippoLa Porta
discussione tuali) onesto, seriamente motivato, non manipolatorio o strumentale, dovrebbe comportare, tra l'altro, scelte obbligate, conflitti con se stessi, rotture, percorsi mai lineari, etc. Tutte cose poco diffuse, almeno così mi pare, nell'attuale dibattito culturale. In quello scritto Tolstoj osserva che un uso della 'ragione' puramente strumentale e giustificatorio tende a produrre un'attività intellettuale "particolarmente raffinata, molto complicata e menzognera", ragionamenti oziosi, volutamente oscuri, con il risultato di avvolgere le principali questioni in una "maglia di raffinate inversioni di concetti e di parole, di sofismi" (L. Tolstoj, Che cos'è la religione). Weil-Tolstoj: una proposta di 'incontro' Vorrei proporre un confronto tra Simone Weil e Lev Tolstoj, con particolare riferimento ad alcuni temi e ad alcune opere. I temi sono quelli dell'uguaglianza, della forza e del sentimento della realtà. Le opere sono, rispettivamente, il primo volume dei Quaderni (Q), lo scritto sull'Iliade (in La Grecia e le intuizioni precristiane - GIP) e la Prima radice (PR), e Guerra e pace (GP) e Anna Karenina (AK). Perché questo confronto? Innanzitutto per un motivo per così dire personale, e dunque in parte casuale, legato cioè ad un interesse verso certi temi e autori, ad una ricerca e ad un orientamento personali che precedono la lettura comparata dei testi che prenderò in esame. Così come anteriore a questa lettura è l'intuizione di una affinità tra lo spirito della Weil e quello di Tolstoj, anche al di là di un'ascendenza culturale e morale effettivamente riconosciuta, al di là delle molte diversità. Sappiamo infatti che la Weil, pur conoscendo l'opera di Tolstoj, e pur avendola letta con attenzione, come testimoniano i riferimenti presenti nei suoi scritti (Q I e Oppressione e libertà - OL), non lo assumeva probabilmente come autore con cui dialogare con continuità e in profondità. Non appare infatti il nome di Tolstoj tra gli autori dei suoi corsi di filosofia (in cui pure troviamo degli scrittori, come Balzac e Hugo) né nell'elenco di quegli spiriti nobili che non si sono conformati alla cultura della forza (cfr. G. Fiori, S. Weil, Garzanti 1981, p. 209). Il dialogo a distanza quindi, di cui tenterò di ricostruire alcuni frammenti, sarà un dialogo in larga parte immaginario, fondato su ipotesi e impressioni che andranno poi sviluppate e verificate più ampiamente. Dialogo comunque che non ruoterà tanto su quei temi comuni che la Weil stessa volle esplicitare, ma che sarà centrato su altri temi, su altre affinità. Ho prima parlato di un'affinità 'di spirito'. Un'espressione certo semanticamente debole, ma che ha il merito di portarci subito oltre una prossimità puramente ideale. Credo infatti che, al di là di un confronto che permette di illuminare alcuni concetti weiliani con la luce di una narrazione che aspirava a riprodurre il fluire della vita stessa, tra i due ·autori ci sia qualcosa in co-. mune in una sfera che viene prima ancora della sfera del pensiero. Sto parlando di una passione della verità, che esce fuori dai libri per premere sulla loro esistenza, sottoponendola continuamente a critica, imponendole svolte. Fin dai giovanili Racconti di Sebastopoli Tolstoj ebbe a scrivere: "L'eroe del mio racconto (... ) è la verità". E così la Weil in OL scrive: "non c'è che una medesima ragione per tutti gli uomini", ragione che, nel suo pensiero, è la capacità di pensare la verità. Entrambi hanno sempre voluto affrontare i problemi che via via gli si presentavano non come problemi meramente intellettuali, ma come probleFilippoLa Porta - 15
discussione mi da risolvere nella propria esistenza. In loro pensare è sempre decidere della propria esistenza, secondo un'ispirazione comune ad altri autori dell'800 e che si può far risalire a Rousseau. È proprio questa ispirazione radicale che farà della Weil e di Tolstoj degli spiriti anticonformisti, 'eretici', insofferenti verso dogmi e istituzioni, irriducibili alla tradizione, refrattari a riconoscersi in qualsiasi chiesa o ordine costituito. Sempre all'interno di questa affinità 'di spirito' c'è poi un'altra attitudine comune. Interessati tutti e due ad una trasformazione della società e ai mezzi di tale trasformazione, mettono però l'accento più sulla pedagogia e sull'impegno etico che sulla politica, più sul valore dell'esempio che sulla necessità di un'organizzazione. Sappiamo quanto la Weil riflettesse con originalità su tutti i problemi connessi a quella che nel linguaggio marxista viene chiamata 'sovrastruttura' (divisione del lavoro, modi di produzione, etc.), ma non si faceva illusioni su certi 'automatismi' presenti nella 'cultura della trasformazione' della 'sinistra'. E così i suoi discorsi più politici insistono sempre sul mutamento delle coscienze, sull'iniziativa individuale, sulla necessità di sviluppare riflessioni critiche sulla società attuale senza preoccuparsi della loro efficacia immediata. Ma vediamo ora i temi su cui il pensiero della Weil e quello di Tolstoj si incontrano non superficialmente, cominciando da quello che mi sembra centrale: l'uguaglianza. L'uguaglianza e la forza "Il riconoscimento dell'uguaglianza degli uomini è un fondamentale carattere di ogni religione. Ma poiché in realtà l'uguaglianza degli uomini tra loro non è mai esistita in nessun luogo, né esiste (... ) coloro ai quali l'ineguaglianza è utile si sforzano di nascondere questo fondamentale carattere dell'insegnamento religioso, corrompendolo" (L. Tolstoj, Che cos'è la religione): ''tutto ciò che contribuisce a dare a colore che sono al fondo della scala sociale il sentimento che hanno un valore è, in un certo senso, sovversivo" (S. Weil, OP, p. 205). Nel passo di Tolstoj che ho citato due mi sembrano gli elementi su cui tentare una riflessione. In primo luogo l'indicazione di un nesso necessario, imprenscindibile tra qualsiasi religione e il riconoscimento dell'uguglianza di tutti gli uomini, poiché "ciascuna dottrina religiosa nel suo vero senso, per quanto possa essere grossolana, stabilisce sempre una relazione dell'uomo con l'infinito, uguale per tutti gli uomini". In questa formulazione e nella sua radicalità mi sembra si possa ravvisare il legame dello scrittore russo con un cristianesimo delle origini, con l"'antico realismo cristiano", come ha osservato Auerbach, con l' "idea cristiano-patriarcale della dignità creaturale insita in ogni uomo" (E. Auerbach, Mimesis, Einaudi, voi. 2, p. 300). Un'idea che potremo considerare, nella sua radicalità, estranea alla modernità, se pensiamo che nella Russia dell' '800, così come nei romanzi di Tolstoj e di Dostoevskij, è assente quella borghesia illuminata che "ovunque altrove sta alla base della cultura moderna in generale" (Auerbach, ibidem). Sappiamo infatti che l'uguaglianza era sì uno dei valori scritti enfaticamente sulle bandiere della rivoluzione francese, ma la versione illuministico16 - FilippoLa Porta
discussione kantiana tende ad affermare l'uguaglianza degli uomini in quanto esseri raziona/i (e dunque a limitarla). Insomma, per poter accedere alla comunità umana e fruire così dei suoi diritti è come richiesto un prerequisito. L'amore 'creaturale' di Tolstoj per gli uomini, e quindi per gli stessi personaggi dei suoi romanzi, avrebbe certo trovato angusto questo orizzonte politicofilosofico. Le convinzioni dello scrittore russo si intrecciano sempre con il suo stile narrativo: "Il realismo di Tolstoj si incarna in ciascuno dei suoi esseri e, vedendoli con i loro occhi, egli trova nel più vile delle ragioni di amarlo e di farci sentire la catena fraterna che ci unisce a tutti. Mercé l'amore egli penetra fino alle radici della vita" (R. Rolland, Vita di Tolstoj). Si potrebbero fare un'infinità di esemplificazioni, tratte dai suoi romanzi, di questa disposizione di Tolstoj. Vorrei qui proporne soltanto una. Si tratta di un personaggio di Guerra e pace che appartiene però non al versante dei 'poveri di spirito', disgraziati e anonimi, ma a quello dei personaggi terribili e crudeli: il vecchio principe Bolkonskij. Nella sua isolata tenuta di campagna lo vediamo tormentare e maltrattare continuamente la docile e mite figlia Marja, oltre ai servitori e a chiunque capiti sotto il suo tiro. Quando dichiara essere l'ozio e la superstizione le due fonti dei vizi umani, si capisce come nell'ozio faccia rientrare tutto ciò che ha un rapporto con il piacere. Quel piacere che nega dispoticamente a chi gli è vicino perché lo nega innanzitutto a se stesso. La sua esistenza è regolare e ordinata, organizzata con una pedanteria maniacale. Eppure dietro le sue sopracciglia grige spioventi ci è dato di scorgere "lo splendore degli occhi intelligenti e luminosi come quelli di un giovane''. Certo è difficile per noi immaginare come e su che cosa si eserciti questa intelligenza adolescente in un personaggio dai modi così bruschi e severi, fino alla più ottusa durezza. Che cosa può ancora illuminare quella luce della giovinezza? E infatti solo quando si ritroverà "spezzato dalla paralisi" e agonizzante sul letto il vecchio principe mostrerà la verità dei suoi sentimenti e della sua vita, una parte cioè del suo '' disordine'', sempre attentamente nascosto e tenuto a bada: sul suo viso apparirà "qualcosa di fanciullescamente timido", e per la prima volta si rivolgerà tra le lacrime alla figlia chiedendole perdono di tutto. Pensiamo solo alla differenza con un altro grande scrittore realista dell'800, Balzac, che pure per il suo "temperamento agitato, fervido, acritico" (Auerbach) è portato a prendere tutto sul tragico, a idealizzare o demonizzare ogni personaggio. In Illusioni perdute troviamo pure un vecchio terribile, Sechard, di umili origini e piccolo proprietario di una tipografia, avido e avaro fino alla follia e sospettoso di tutti, anche del figlio. Possiede due grosse sopracciglia, come il personaggio tolstoiano. Però sotto queste sopracciglia non intravvediamo nessuna luce, ma solo "i piccoli, scaltri occhi grigi, in cui si leggeva un'avarizia che uccideva tutto in lui, perfino il sentimento paterno". Papà Sechard non rivelerà la sua 'verità' perché non può averla, perché non ne ha un'altra dietro a quella del suo carattere e del suo mestiere. Per Balzac il 'destino' socialmente determinato di una persona, legato alle sue origini e al suo ruolo, rappresenta una seconda natura così marcata da oscurare qualsiasi prima natura, da "uccidere tutto". Ho prima fatto cenno ad un secondo elemento presente nel brano di Tolstoj citato all'inizio. In questo brano c'è un'affermazione che in un primo momento ci lascia stupiti: "l'uguaglianza degli uomini tra loro non è mai esistita in nessun luogo, né esiste". L'uguaglianza dunque non è qualFilippoLa Porta - 17
discussione cosa di evidente, di immediatamente visibile, di puramente intuitivo. È data appunto, per lo scrittore russo, dalla relazione di tutti gli uomini con l'infinito, di fronte al quale tutti gli uomini senza eccezioni sono nulla. Eppure il riconoscimento di questa relazione non scatta per ciascuno.· Cosa lo impedisce? Cosa può favorirlo? Ma ora torniamo alla Weil e vediamo quale risposta indirettamente fornisce a questa domanda. È quella cosa che lei chiama 'forza' a impedire o a rendere difficile questo tipo di riconoscimento. La 'forza' è un principio che opera in tutto l'universo, quindi anche nell'uomo. Chi subisce la forza è ridotto al livello della materia inerte, della pura passività, si sente non ancora umano; chi la esercita si sente invincibile, onnipotente, immortale, non più umano. Come leggiamo nel saggio sull'Iliade il forte e il debole, il vincitore e il vinto "non si credono della medesima specie. Né il debole si considera il simile del forte, né da lui è considerato suo simile". E ancora: "La diversità delle costrizioni che pesano sugli uomini fa nascere l'illusione che vi siano tra loro specie distinte cui non è dato comunicare". Già, però se è un'illusione l'idea che esistono specie umane distinte, non è un'illusione quella "diversità di costrizioni che pesano sugli uomini". Per quale ragione insomma dovrebbe contare di più, essere più decisiva la condizione, comune a tutti gli uomini in quanto 'creature', di estrema precarietà e vulnerabilità, e non le enormi differenze, sociali e naturali, visibili ad occhio nudo? Non esistono "specie distinte", ma classi, ceti, categorie e gruppi si. A proposito del concetto weiliano di "forza", vorrei tornare a Tolstoj e a Guerra e pace. Napoleone è arrivato a Mosca, che nel frattempo è stata data alle fiamme. Qui Pierre Bezuchov è fatto prigioniero e, tra le altre cose, gli capita di assistere ad una esecuzione. Anche lui fa una qualche esperienza di ciò che nella Weil viene definito "forza". Un caporale francese che durante la prigionia di Pierre si era mostrato gentile verso di lui subisce improvvisamente una metamorfosi. Un giorno infatti soldati francesi e prigionieri devono rimettersi in marcia, abbandonare Mosca. Da tutte le parti rullano i tamburi. C'è una concitazione generale. Pierre chiede al caporale di occuparsi di un prigioniero ferito grave, ma il caporale proferisce una bestemmia ed esce dalla baracca sbattendo la porta con violenza. Si è trasformato al punto di diventare irriconoscibile. "'Eccolo! Eccolo di nuovo!' si disse Pierre, e involontariamente gli corse un brivido per la schiena. Nel viso mutato del caporale, nel suono della voce, nel rullo eccitante e assordante dei tamburi aveva riconosciuto quella forza misteriosa, impassibile, che aveva obbligato gli uomini, contro la loro volontà, a uccidere i propri simili, quella forza di cui aveva veduto l'azione durante l'esecuzione". Pierre capisce allora che è inutile tentare di sfuggire a quella "forza misteriosa", è inutile "rivolgersi con le preghiere o con la persuasione agli uomini che le servivano di strumento". Su tutti i soldati francesi, sui loro visi freddi, legge ora quella stessa ''cosa''. Qui lo scrittore russo, come la Weil, mostra un realismo impietoso e privo di consolazioni sull'immenso potere di quella "cosa". Proprio riflettendo sull'Iliade la Weil aveva notato che la forza è al centro della storia umana, anche se non tutto, in questa storia, vi si conferma. C'è un modo per neutralizzare o almeno limitare l'azione di questo meccanismo cieco, ed è quello di trattare e considerare la forza come qualcosa che non appartiene a nessun essere umano in particolare. Si tratta appunto di un meccanismo im18 - Filippo La Porta
discussione passibile ma impersonale, che nessuno possiede fino in fondo e irreversibilmente, che nessuno può illudersi di dominare (pensiamo al generale Kutuzov, che si limita a controllare gli effetti della "forza", semplicemente assecondandone i movimenti con piccoli aggiustamenti). Qui il discorso sulla forza si incontra con quello sull'uguglianza. Scrive la Weil: "Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso (La Grecia... ). La maggioranza degli uomini "ignorano" o vogliono "ignorare" il potere cieco e capriccioso della "fortuna" e della "necessità", che sono due tra le tante forme che può assumere la forza. Con il risultato di erigere tra loro una barriera iniormontabile: "Rimane il bisogno di subire ciò che si è fatto subire agli altn, per ristabilire con essi una reciprocità e una comunicazione", aveva scritto negli stessi anni della Weil Merleau-Ponty in Umanesimo e terrore. Il fatto è che per poter squarciare il velo di quella "ignoranza", per poter guardare oltre l"'abisso" di disuguaglianza che effettivamente separa gli uomini tra loro, è necessaria, sul piano individuale, una quantità e qualità di immaginazione morale che, come vedremo anche in Tolstoj, è il prodotto incerto e mai garantito di situazioni-limite. La Weil parla, sempre nello scritto sull'Iliade, di "momenti luminosi, momenti brevi e divini nei quali gli uomini hanno un'anima", momenti di grazia, precari ed effimeri, in cui ci si sottrae all'imperio della forza attraverso la solidarietà, l'amore e l'amicizia. Momenti in cui intravediamo ciò che "la violenza fa e farà perire". Non si tratta, mi pare, di un appello moderato al 'debole' perché abbia pietà verso il 'forte'. L'uguaglianza anzi si presenta qui come un compito, come un obiettivo, per salvare tutto quello che "la violenza fa perire". L'invito a vedere come tutti siano ugualmente esposti al male e all'azione della forza, deve mostrarci quanto le differenze e gli squilibri della civiltà attuale siano artificiosi e innaturali. La Weil aggiunge però che è comunque necessaria una "battuta d'arresto da cui solo può nascere il rispetto verso il prossimo", la capacità di suscitare nell'incessante svolgersi della propria esistenza "un lieve intervallo ove si inserisce il pensiero. E dove non ha dimora il pensiero non ne ha la giustizia né la prudenza". Non si tratta di una richiesta 'facile' da esaudire. La possibilità stessa di una pausa, di un breve intervallo sembra essere storicamente ridotta (se non proprio bruciata) dalla progressiva scomparsa di ogni interiorità e di ogni autonomia dell'individuo nella moderna società di massa. Le "battute d'arresto" individuali, quando sono in qualche modo permesse, vengono quasi sempre duramente penalizzate. Chi si ferma è perduto. Persino il pensiero filosofico ci invita, con educazione solo apparente, a limitarci a rispettare le regole del gioco che presiedono ai vari linguaggi confinando il pensiero (che può rivelarsi negli "intervalli") nella sfera inoffensiva del privato. Pierre, di fronte all'apparizione di quella "cosa" sui volti dei soldati francesi, conclude che può solo "aspettare" impotente. Ma non sempre è dato di "aspettare". Nell'attesa può infatti avvenire qualcosa di irreparabile. La Weil allude in diversi punti della sua opera ad una possibile cultura di riferimento, risultata poi perdente o minoritaria all'interno della tradizione occidentale. Un cultura che include anche la conoscenza scientifica e che nel suo pensiero è giocata come contrapposizione della tradizione diciamo FilippoLa Porta - 19
discussione greco-evangelica (e poi gnostica, m1st1ca,occitanica, etc.) alla tradizione ebraico-romana e poi borghese-moderna. Senza discutere qui la legittimità di tale contrapposizione, vorrei osservare come il sentimento della miseria della condizione umana, che per la Weil anima quella cultura, sembra essere agli antipodi della cosiddetta modernità, il cui contenuto fondamentale si può così riassumere: "Dio è morto, tocca all'uomo prendere il suo posto" (R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca). Una promessa che, nota Girard, ognuno scopre fallace per sè nell'intimo della propria coscienza, ma che ognuno continua a considerare vera per tutti gli altri, credendosi così l'unico escluso dal retaggio divino. Con il risultato di scavare tra sé e gli altri un abisso insormontabile. Prima ho parlato di una quantità e qualità di immaginazione necessaria al tipo di riconoscimento o di consapevolezza invocato dalla Weil, e per il quale, ripeto, occorrerebbe una cultura di riferimento (sia filosofica che scientifica) sensibilmente diversa da quella attuale. In Guerra e pace Andrej Bolkonskij, ferito nella battaglia di Borodino, viene trasportato sofferente nella tenda-infermeria. Qui lo depongono su una tavola accanto ad un uomo cui stanno amputando una gamba, tra lamenti e singhiozzi soffocati. Andrej, in un momento di temporaneo sollievo dalla sofferenza prova un benessere particolare, si ricorda ''tutti i momenti migliori e più felici della . sua vita e specialmente la più lontana infanzia( ... ) quando egli si sentiva felice per la sola coscienza di vivere". Poi riconosce ad un tratto nell'essere infelice cui hanno amputato la gamba Anatol Kuraghin, la persona cioè che aveva odiato di più, colui che gli aveva sottratto Natascia e che lui aveva cercato dovunque per ucciderlo. Eppure Andrej, nel vortice confuso dei ricordi che quell'uomo evoca in lui, scopre di non nutrire più alcun risentimento e anzi sente il suo cuore, ora felice, riempirsi di una pietà e di un amore fervente per quell'uomo: "non potè più trattenersi e pianse lacrime di tenerezza e di amore sugli uomini, su se stesso e sui loro e sui propri errori". L'esperienza che qui fa Andrej è un'esperienza-limite. Appunto, "l'uguaglianza tra gli uomini non esiste". Per 'vederla' e 'toccarla' occorre un'esperienza diversa da quella normale, da quella quotidiana, anche se a tutti accessibile. Vorrei insistere sull'accessibilità di tale esperienza, proprio perché ha a che fare con il tema dell'uguaglianza. È sempre Rolland che nella sua commossa biografia insiste sui caratteri dei protagonisti di quasi tutti i romanzi tolstoiani. Nechliudov di Resurrezione, che può considerarsi emblematico al riguardo, non assomiglia agli eroi o ai demoni dostoevskijani, ma è "il tipo dell'uomo medio, mediocre e sano che è l'eroe abituale di Tolstoj". Certo questo uomo medio, affinché possa uscire dalla menzogna in cui è avvolto, viene precipitato in situazioni-limite, come la guerra, la malattia, la prigione, l'agonia prima della morte. Anche nel celebre Morte di Ivan Ilic il protagonista, solerte e conformista giudice istruttore, che impronta i propri rapporti familiari ad una "piacevolezza" fredda e ipocrita, scopre di fronte all'orrore della morte l'inganno e la menzogna della propria vita. E così il vecchio Bolkonskij, il padre di Andrej, come abbiamo prima visto. Perché tutto questo ha a che fare con l'uguaglianza? In un passo autobiografico dell'Attesa di Dio Simone Weil, ricordando il proprio senso di inferiorità nei confronti del fratello, parla di una 'scoperta' decisiva da lei fatta nell'adolescenza: "all'improvviso e per sempre ho avuto la certezza 20 - FilippoLa Porta
discussione che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono quasi nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, solamente se desidera la verità". Poco prima aveva parlato di "un regno trascendente della verità" perché anche lei, come Tolstoj, sa che la 'verità' è qualcosa che non si vede ad occhio nudo, che appunto trascende la realtà fenomenica. La Weil non ignora gli inevitabili condizionamenti materiali: "si è forse in grado di pensare nello stesso modo quando si ha fame, si è sfiniti, si è umiliati e senza considerazione?". Però il passo della Weil che ho citato può servirci per sottolineare che l'uguaglianza non può ridursi all'uguaglianza politicogiuridica, dei cittadini di fronte allo stato, ma neanche ad una mera uguaglianza di redditi e di condizioni sociali. Il testo weiliano parla di "facoltà naturali quasi nulle". Nella Prima radice leggiamo che "gli ostacoli materiali - mancanza di tempo libero, stanchezza, mancanza di doti naturali, malattie, dolore fisico - rendono difficile l'acquisizione degli elementi inferiori e medi della cultura e non già quella dei suoi beni più preziosi" (p. 62). Chiunque può accedere a questi beni preziosi, al contenuto più alto della cultura, e chiunque deve sapere che ha questa possibilità. Sempre nella Prima radice l'uguaglianza viene identificata con il "riconoscimento pubblico, generale, effettivo (... ) che ad ogni essere umano è dovuta la stessa quantità di rispetto, perché il rispetto è dovuto all'essere umano in quanto tale e non conosce gradi" (p. 20). Ogni condizione umana, ogni attività, deve poter essere considerata da tutti gli altri, e da se stessi, non superiore o inferiore ad un'altra ma semplicemente diversa. Una riflessione recente sull'argomento, anche se di natura diversa, propone un approccio.per molti aspetti simile a quello della Weil: "è plausibile collegare l'uguaglianza con la stima di sé" (R. Nozick, Anarchia, stato e utopia). È proprio attraverso questa stima di sé che l'aspirazione ugualitaria intrattiene un rapporto perfino con l'invidia. Cioè posso desiderare che un altro non abbia un punteggio migliore del mio in una certa dimensione (e non infischiarmene) se quel punteggio minaccia o scredita la mia autostima, il sentimento di quello che valgo. Centrali restano comunque, nell'impostazione di Nozick, la stima e il rispetto di me, stima e rispetto che dipendono dalla stima e rispetto che gli altri hanno verso di noi (t! infatti la Weil aveva detto: "riconoscimento pubblico e generale"). Secondo questa impostazione diventa sovversivo tutto ciò che permette a coloro che stanno al fondo della scala sociale di sentire che hanno un valore. Secondo Nozick, dal momento che una disuguaglianza offende la stima di sé solo quando si verifica nella stessa 'dimensione' in cui uno opera, dimensione che può essere uno stesso luogo di lavoro o anche il denaro come criterio di successo) propone alla fine una sorta di uguaglianza delle varie 'dimensioni' o, per dirla con un linguaggio più asetticamente sociologico, una equiparazione dei punteggi in esse raggiungibili. Il che poi dovrebbe tradursi in una illimitata "varietà di differenti liste di dimensioni e di modi di ponderare" (p. 261). In questo modo l'uguaglianza tra due condizioni o attività anche diversissime potrà stabilirsi nella misura in cui ''sono considerate non già l'una più o meno dell'altra ma semplicemente diverse". La Weil esemplifica poi attraverso un riferimento alle diver~issimeprofessioni di minatore e di ministro, viste come professioni corrispondenti a 'vocazioni' diverse. Non per sancire così in eterno l'attuale divisione del lavoro o la separatezza della politica (quale minatore inoltre ha 'scelto' di essere tale?), FilippoLa Porta - 21
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==