Linea d'ombra - anno II - n. 4 - febbraio 1984

bottega Dove patii la prima Volta il parlare diverso E la mancanza del mare Sentendomi chiuso e perso ... La poesia si chiama Te Deum, fa parte di un mio libro intitolato Il male dei creditori, ma è troppo lunga, 144versi, per essere qui riportata: devo dire soltanto che le sue "misure" mi salivano dentro, con una insistenza che per almeno due ore mi distrasse completamente dal desiderio di dormire e che nello stesso tempo mi tenne inchiodato al letto in un'immobile posizione supina, impedendomi di alzarmi per annotare (come si fa e si deve fare in questi casi) un minimo di appunti. Solo più tardi riuscii a buttar giù su un taccuino alcune righe quasi informi; ma il giorno dopo tralasciai qualsiasi altra incombenza e scrissi nello spazio (credo) di un pomeriggio la prima stesura che, nell'impianto e in parte nelle parole, fu anche quella definitiva. C'erano e ci sono tutti i cognomi veri, tranne qualcuno inventato per ragioni di rima, e un Fantozzi mimetizzato poi in Mengozzi per non associarlo al personaggio allora in voga di un noto attore comico: ma si chiamava precisamente Fantozzi, il mio cqndiscepolo esistito assai prima del personaggio cinematografico, e Fantozzi dunque dovrà ritornare in ogni futura eventuale ristampa ... Te Deum non è un'indegna poesia: ma a chi ne andrà il merito? Sì, la voce che "ditta dentro" è diventata un luogo comune: ma io non feci altro in quel caso che trascriverla col massimo scrupolo di fedeltà, meravigliato e felice della chiarezza con cui mi parlava, della lucidità delle sue formulazioni che mi parve assai simile alla lucidità (una volta o due sperimentata, per forza maggiore) che ci viene da una fiala di morfina. Il che autorizzerebbe a supporre che anche la poesia si manifesti, come la lucidità indotta dal farmaco, attraverso uno stato di alterazione "positiva" della mente, talvolta preceduta nel poeta da una condizione di inspiegabile disagio: in modo un po' scherzoso mi è capitato più volte, conversando, di paragonare questo disagio pre-poetico (forse derivante dalla non ancor registrata presenza di quella che M. Perugi chiama, a proposito del Pascoli, "meteora psichica") al "divino spavento" che, nella Passione, il Manzoni attribuisce al profeta Isaia ( "in quel dl che un divino spavento I gli affannava il fatidico cor"). Ma quello di Te Deum non è che un esempio, fondato per giunta su un caso abbastanza eccezionale e fortunato, di come la nascita del poema tenda, secondo me, a prescindere (anzi: a fortemente prescindere) dalle intenzioni coscienti dell'autore: tanto da indurmi a pensare che la sua significatività (dal punto di vista poetico) sia in ragione inversa del carico di intenzione o intenzionalità che l'accompagna. Voler dire troppo è insomma alquanto pericoloso per il poeta: stradire (mi si consenta il gioco) significa quasi sempre tradire la verità del poema, 98 - Giovanni Giudici

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