Linea d'ombra - anno II - n. 4 - febbraio 1984

raccontiitaliani nostante i quasi quarant'anni. Abitava in paese (o ormai si chiamava periferia?) vicino alla villa. Aveva fatto qualche lavoretto per loro, nell'azienda, quando qualcuna delle donne era malata. L'aveva vista allora e lei Io aveva ricambiato con uno sguardo duro, quasi di sfida. Forse le sue mani Io avevano colpito subito per come si muovevano, giravano, saltellavano sugli oggetti, mentre gli occhi immobili lo osservavano, senza abbassarsi. Timido, incerto, le aveva sorriso e lei, in qualche modo, gli aveva risposto. Era tornato più tardi, la donna, Maria, era ancora nella grande stanza illuminata, ultima rimasta. Antonio se l'era immaginato, chi lavora di rado cerca di fare il più possibile. Era entrato improvvisamente e aveva sentito le stesse scariche del cuore che lo attraversavano ora. - Vada, è tardi, - le aveva detto, ma pensava a altro. Lei aveva capito, si era alzata e silenziosamente lo aveva seguito nel suo studio. Non avevano mai parlato, ma lei era stata attenta, comprendendo le sue lentezze e gli impeti rilassati. Sembrava tutto come tante altre volte. Era ancora appoggiato al divano, contento, quando lei gli aveva chiesto i soldi, non come una puttana, ma con l'aria di chi si aspetta la ricompensa per un lavoro ben fatto. Lui glieli aveva dati subito, senza protestare. Ferito. Sordo. E aveva capito di essere vecchio. Per sempre, senza scampo. Per fortuna se n'era andata alla svelta, lasciandolo solo nella penombra stanca dell'ufficio. Si era rivestito e, calmo, se n'era tornato a casa. La luna attraversava già i tetti come una boccia metallica e i cani da dietro le case le regalavano la loro raucedine. Aveva parlato lento e mangiato poco quella sera. E due giorni dopo era caduto sul letto, subito dopo essersi alzato. Infarto. Il primo. Chissà se lei sapendolo ci aveva scherzato sopra o ne aveva avuto rimorso. Poca importanza. La casa di Giulia era in via del Leone al numero dodici, era quasi arrivato, ma non era pronto. Cercò di riordinare le idee. "Non è di te che gli devi parlare, lo sai", gli suggerì la metà saggia del suo cervello. Si sentiva un po' svuotato. Può capitare a evocare i ricordi. Passando salutò due o tre persone che conosceva davanti al bar all'angolo con il Corso. Poi un escremento di piccione gli sfiorò il braccio sinistro senza sporcarlo. Non era un uomo fortunato, ma almeno pulito. Sulla porta sotto il numero dodici, c'erano cinque campanelli, il penultimo dal basso aveva accanto una striscia di plastica adesiva con il nome, Giulia Agresti, sbalzato da un'etichettatrice. Suonò. Fece un respiro profondo. Pronti ... Attenti ..... Aprì la finestra. Dalla strada salì la confusione indistinguibile della gente mischiata ai rumori delle cose. Colse qualche pezzetto di frase, non comprensibile. Poi lo vide che risaliva la strada e schizzò dentro prima che guardasse in alto, verso di lei. Attese immobile il suono del campanello, così intensamente, che le parve di vederlo arrivare, come se volasse insieme al sole, nell'aria pulviscolosa della stanza. Andò ad aprire. - Buongiorno - disse Antonio entrando, la testa reclinata di chi è imbarazzato. Lei gli indicò la stanza alla sua sinistra e il divano che guardava verso la strada. Poi lo seguì e gli si mise di fronte. Antonio si sedette, prese di tasca il fazzoletto e si asciugò il sudore. - Sono le scale - le disse. Poi, dopo un momento, continuò: - Come stai? non ti fai mai vedere su da noi. - 62 - Giorgiovan Straten

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