Linea d'ombra - anno II - n. 4 - febbraio 1984

apertura la condizione di alcune persone della carovana - don Antonio, vecchi, donne, bambini ... Uno di loro, quello che sembrava esser diventato il loro capo, si volse verso di noi, e indicandosi con il dito un occhio ci disse: "Non vi eravate resi conto che vi guidava un orbo." Ci vedemmo costretti ad abbandonare le ambulanze. Pioveva fittamente. Eravamo distanti dalla frontiera circa seicento metri. L'orbo ci lasciò mormorando tra i denti: "I miei figli hanno sofferto il freddo. Lo soffrano adesso quelli degli altri ... " Se ne andarono con il resto dei nostri bagagli. Don Antonio si appoggiava al braccio del fratello. La vecchia madre a quello della nuora. Quaranta persone di ogni età seguivano a piedi. La pioggia ci frustava le facce e ci inzuppava i vestiti. La gente ci guardava passare con occhi addormentati. Nel buio della notte inciampavamo e ci perdevamo tra camion e carri, agnelli e asini, uomini e donne, bambini e feriti. Di tanto in tanto i falò della cunetta che la pioggia spegneva rivivevano improvvisamente e illuminavano i profili delle cose e delle persone. I più deliranti spettri di Goya prendevano vita. Sfiniti, al limite della resistenza fisica, giungemmo alla catena. Non sapevamo se avremmo potuto oltrepassarla o se avremmo dovuto trascorrere il resto della notte sotto la pioggia. Alcuni enormi senegalesi ci sbarrarono il passo. Non avevamo passaporti. Non avevamo denaro. Per fortuna una delle persone della carovana aveva un invito a tenere una conferenza alla Sorbona. Dopo molti andirivieni il commissario francese incaricato della frontiera si rese conto della qualità delle persone e con quel solo documento come dimostrazione ci permise di passare. La madre di Machado era tutta inzuppata d'acqua. Entrò nella casetta dei gendarmi e si sedette a lato della stufa. La bianchissima capigliatura grondante, il volto bagnato, il suo profilo regolare e delicato si distaccava con una singolare bellezza. Aveva novantasette anni. Non era mai stata malata. Non si rendeva più conto di cosa stesse accadendo. Nella casa dei gendarmi ci dettero a tutti un pezzo di formaggio e una grande fetta di pane bianco e spugnoso. Mai avevamo assaporato niente di altrettanto gustoso di quel pezzo di pane offertoci dall'ospitalità francese. Nella casa a fianco un ferito di guerra stava agonizzando. Dopo una lunga attesa alcuni autocarri ci trasportarono alla stazione di Cervera. Alcuni compagni che avevano passaporto e denaro erano già scomparsi. I marciapiedi della stazione erano strapieni di rifugiati spagnoli seduti o sdraiati a terra tra sacchi e bagagli di ogni genere e mucchi di immondizia. Il padrone del ristorante rifiutò di darci da mangiare, nonostante tutte le nostre spiegazioni, poiché non avevamo denaro sonante e cantante. Un ignoto francese ci offrì alcuni franchi. Comprammo poche razioni che dividemmo tra molti. Don Antonio mangiò appena. Diceva di non sentirne il bisogno. Era silenzioso. Sembrava molto emozionato. Non pronunciò un solo lamento. A Cervera la polizia setacciava le strade e radunava tutti gli spagnoli privi di documenti per portarli nei campi di concentramento. Uscire dalla stazione era impossibile. Nell'albergo non c'era una sola stanza. Venuta la notte, il capostazione ci permise di salire in un vagone di rifugiati. li rumore della pioggia che continuava a cadere fittamente ci fece apprezzare in tutto il suo valore quel minimo rifugio. JoaquinXirau - 33

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