apertura vincolava alle sofferenze di un popolo ferito e oltraggiato. Riteneva che tra gli individui e tra i popoli solo ottengono l'immortalità quelli che sanno meritarla e conquistarla, che i sentieri del dovere sono inesorabili e una volta individuati vanno seguiti con fiducia e con allegria. Penetrato dal senso della frase evangelica "chi conserva la vita al prezzo della sua anima la perderà, e chi perderà la vita per amor mio la troverà" sapeva che solo è degna di essere vissuta una vita consacrata all'ideale. Un aneddoto servirà a spiegare quest'atteggiamento, insieme fermo e pessimista. Venivano frequentemente dal fronte splendidi giovani a offrire un qualche dono al poeta - pane, tabacco, un po' di carne dell'intendenza militare. Era una sera d'estate nei giorni della battaglia dell'Ebro. Da tutte le parti giungevano voci ottimistiche. Due giovani che portavano della carne d'agnello lo salutarono pieni di allegria. Nell'ampia sala da pranzo ottocentesca, don Antonio chiese loro: "Come va, ragazzi, cosa c'è di nuovo?" "Va bene, don Antonio, va molto bene." Don Antonio replicò con un sorriso pieno di dolcezza: "Sì, andiamo bene." E voltandosi verso di me aggiunse a mezza voce: "Come l'irlandese della storiella." Più tardi mi raccontò la storia dell'irlandese. In un grattacielo vivevano un inglese e un irlandese, l'irlandese in un appartamento in cima, l'inglese in uno a mezza altezza. Un giorno l'irlandese si affacciò alla finestra, perse l'equilibrio e cadde giù. Quando passò davanti alla finestra dell'inglese, questi lo sentì dire: "Per ora, va proprio bene." In un certo senso, in effetti, le cose andavano bene. Nel mezzo dell'ecatombe morale del mondo, in quell'angolo di Barcellona, la dignità sopravviveva ancora. Con reiterata insistenza gli vennero offerti incarichi onorifici all'estero, missioni culturali e diplomatiche che avevano lo scopo di allontanarlo dal pericolo e di assicurargli una pace materiale. Con premuroso rispetto per chi li offriva come per chi li accettava, li rifiutò sempre risolutamente. Credeva più utile per la Spagna l'atto della sua presenza personale in patria. Lo infastidivano invece le continue richieste di usare la sua firma per la redazione di note e manifesti. "Dicono che scrivo bene," diceva. "lo non l'ho mai detto. Però se scrivo qualcosa meglio o peggio è perché mi viene da sè. Se a qualcuno serve altro, non pretenda che sia io a scriverlo. Se lo scriva da solo." Le sue previsioni pessimistiche trovarono conferma l'una dopo l'altra. All'improvviso le cose precipitarono vertiginosamente. I bombardamenti aerei si succedevano da tre giorni quasi senza sosta. I bollettini ufficiali della guerra erano deprimenti. La domenica 25 gennaio si diffusero in città le notizie più allarmanti. L'invasore era ormai alle sue porte. Ciò nonostante il gruppo abituale si riunì ancora. Il rumore dei bombardamenti lasciava appena posto al canto. Calò la notte, carica di angoscia. Il giorno seguente, scendendo verso il centro della città per la strada di Montaner, sanarono le sirene di allarme e ci affrettammo a raggiungere il rifugio del Ministero della guerra. Al Ministero osservammo che si stavano raccogliendo carte e documenti e si preparava l'evacuazione. I ministeri e le industrie di guerra abbandonavano la città per venir trasferiti a Gerona o a Figueras: Mi recai alla facoltà di lettere e filosofia, dove i corsi si svolgevano regolarmente - e lo dico a onore di quei ragazzi e ragazze e di quei professori che rimasero fino all'ultimo al loro posto studiando etimologia e commenJoaquin Xirau - 27
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