Linea d'ombra - anno II - n. 4 - febbraio 1984

bottega "La noia pone il problema delle disillusioni - diceva. - Moravia ci ha insegnato che il soggetto si annoia quando vive il proprio ambiente come povero di stimoli. I suoi personaggi non trovano la vita amara ma vuota. "Ma è noia anche la mediocrità piccolo-borghese, la piattezza quotidiana, la superficialità, la viltà e la paura. In questo nessuno di noi intellettuali è incolpevole. In circostanze diverse nulla ci renderebbe così grandi come un grande dolore. Ma per arrivare dalla noia, dalla perdita di speranza, al suicidio, occorre una interiorizzazione completa dell'istinto distruttivo. Da noi c'era riuscito Pavese, c'era riuscito Guido Morselli". "In alcuni di noi invece la mediocrità è la nostra seconda natura. È così per tutti. Accade che una parte di noi, proprio la peggiore, debba continuare fino alla fine a sopraffare la migliore". Rabbuiandosi disse di non amare il mondo dei letterati, per questo di non essere riamato dai critici e dagli scrittori contemporanei. La collaborazione per il "Corriere della Sera", l'esclusiva con Rizzoli per le sue opere? Un modo come un altro per sopravvivere, per sè, per la giovane moglie, per i figli ancora piccoli. Tutto qui? Voi intellettuali siete solo questo, non c'è altro? Fissava l'interlocutore in modo indefinibile, ed esercitava una sorta di suggestione sulla sua credulità. Aveva il gusto della citazione breve. Frasi come questa: "Li riconoscerete dai loro frutti", riguardo alla afasia in cui versano certi scrittori contemporanei. Un cenno alla Morante: "consolatrix afflictorum", consolatrice degli afflitti. Per Pasolini citava Holderlin: "La violenza e l'amore lo avevano sconvolto, e la ragione brillava sulle rovine del suo cuore come l'occhio di uno sparviero che si posi su un palazzo distrutto". Ricordava come i suoi amici migliori fossero stati i letterati dell'ambiente fiorentino, tra il '30 e il '40: Enrico Poggioli, Giansiro Ferrata, gli amici delle riviste "Solaria" e "Letteratura", Carlo Bo, Antonio Delfini, Romano Bilenchi, Eugenio Montale anch'egli presente a Firenze dal '27 al dopoguerra. "Nel '40 venivo fuori da un'ennesima traduzione dei russi. Mi atteggiavo anche nei modi a scrittore russo dell'Ottocento (Cechov ?). Quando ero a tavola con gli amici, mi annodavo attorno al collo la salvietta; le due punte dietro alle orecchie mi davano l'aspetto di un timido coniglio. 'Sembri un coniglio bianco', mi diceva Elsa Morante. Avevo letto proprio in un racconto slavo di una donna: Bozena, Bozena-la boema. Così Elsa divenne Bozena. Ma lei non veniva avanti: aspettava di essere chiamata col suo vero nome. Le gridavo: 'Bozena, la giovane boema di una volta'. Elsa veniva verso di noi, porgendoci quel suo viso di Vergine Nera". Squillava il telefono. "Non ci sono per nessuno - raccomandava -Capito? Per nessuno". E riguardo all'isolamento che si imponeva come scrittore: "Giocando a fare il fantasma si diventa un fantasma". E ancora Carlo Emilio Gadda, uno spirito non dissimile: " ... un saggio 174 - Aurelio Andrea/i

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