bottega W.G. - Confesso che le forme del romanzo mi interessano poco. Mi sembra tipico delle culture troppo raffinate, come quella parigina, ridurre troppo spesso il gigantesco problema della forma all'elaborazione di modelli sempre nuovi di "nuovo romanzo", alla letteratura, e, quel che è peggio, a della letteratura sulla letteratura. Lo so, è il loro modo di cercare la realtà della scrittura, ma non credo che questa strada porti lontano. Ancora un'aninomia: saprà che cos'è la forma solo colui che non si allontana di un passo dal vortice della vita in tutta la sua intensità. D.R. - Cosa significa dunque per Lei l'assassinio di Skuziak? W.G. - Perché Frédéric lo uccide? Lo uccide per la stessa ragione per cui mettiamo del lesso nella minestra: perché la minestra sia migliore. Vuole renderla migliore con un giovane assassinato, ha bisogno del sapore di un giovane morto. Si comporta come un regista, - del resto è questo il suo ruolo fin dall'inizio -, vuol raggiungere "realtà" differenti, incantesimi e bellezze impreviste, assortendo le persone, mescolando giovani e vecchi in nuove relazioni, come un Cristoforo Colombo alla ricerca, non dell'America ma di una certa realtà e di una certa poesia. Questo ragazzo, Skuziak, si tiene in disparte, non si sa cosa ci stia a fare, va inserito nella situazione. Come? Uccidendolo. È una rima aggiunta al poema, una "rima per la rima", senza altre ragioni. L'autore di quello studio ha giustamente notato che quest'atto è, in questo senso, eccezionale rispetto allo svolgimento normale del romanzo. Ma è impensabile che scrivendo il mio romanzo mi sia rotto la testa sui problemi delle nuove strutture romanzesche. Che noia! Quell'analista perspicace avrebbe fatto meglio a vedermi nella mia estasi e nella mia confusione di fronte al fascino crudele di quel giovane sangue. Dobbiamo imparare a riconoscere tutte le tensioni reali, vere, che esistono tra la giovinezza e noi. Tradurre la poesia in diagrammi è un compito ingrato. Se fossi al posto di quei signori, mi vergognerei. D.R. - Torniamo alla differenziazione che Lei ha ricordato all'inizio. Lei ha sottolineato come, oltre le deformazioni che le persone si impongono reciprocamente, esista una deformazione che si realizza nella solitudine, conseguenza di quell"'imperativo della forma" che ci agisce. Finora abbiamo parlato dell'uomo isolato. E l'uomo tra gli uomi- "? ru. W.G. - Non vorrei parlarne troppo. Mi piacerebbe che tutto questo si svelasse poco a poco, nel corso delle nostre conversazioni. In breve: l'uomo che impone la propria forma è attivo, è il soggetto della forma, è lui a crearla. Ma quando la sua forma, in contatto con la forma degli altri, subisce una deformazione, in una certa misura egli è creato dagli altri, egli diviene oggetto. E non si tratta affatto di una trasformazione esteriore, perché la forma ci penetra fin nel profondo; è sufficiente modificare il tono della voce e già dentro di noi certi contenuti non Witold Gombrowicz - 153
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