bottega Una seconda osservazione, corollario della prima, è che la lingua della poesia (meglio diremmo: il suo universo culturale) si sottrae spavaldamente e quasi beffardamente al dominio della presente e di altre future razionalità, proprio perché legata in prevalenza a quelle zone di sensibilità che l'evoluzione storica ha trascurato di razionalizzare e che peraltro sussistono ancora, libere da qualsiasi "intelligenza", in numerose specie animali. Poiché non sono un etologo non mi sento qui in grado di produrre esempi, ma essendo un poeta o tale ritenuto, mi sento in grado (ed è una terza considerazione) di affermare, anzi ripetere, sempre sulla base dell'esperienza, che in poesia ogni ecce~so di razionalizzazione da parte dell'autore condanna il poema al fallimento, al non esserci. Ciò non significa che il poeta debba essere quel candido "fanciullino" su cui troppe volte si è risibilmente ironizzato (dimenticando il senso profondo e serio della metafora pascoliana); ma significa certamente che, nel rapporto con l'oggetto-poema, egli deve comportarsi come lo scaltro nocchiero d'altri tempi che, senza ausilio di radar o di bussola, guidava in porto attraverso barriere di scogli la sua piccola nave; o come il cacciatore di farfalle ben consapevole che un respiro fuori tempo o un passo fuori luogo faranno volar via la sua fragile, labile, variopinta preda; o come il giocatore d'azzardo, che sa quanto è facile sballare. Resteremo allora in attesa deI poema, del suo impreveduto e improvviso ticchettìo? Potrebbe non giungerci mai, e tanto meno giungerci quanto più l'aspettassimo con maliziosa coscienza pronti a registrarne (magari con un sismografo tascabile) ogni impercettibile scossa ... No, non mi sembra questo il problema: si tratterà piuttosto di disporsi umilmente al suo ascolto, se mai venga; e di non rimpiangere troppo che qualche volta ci sfugga; e di ricordarci continuamente che, pur nascendo dentro di noi e stimolata da emozioni, angosce e gioie che sono o sono state le nostre, quella voce viene da sfere "selvagge" (come la pensée in Lévi-Strauss ma anche come certe forme di rivolta) quasi totalmente precluse alla nostra esplorazione, regolamentazione e, insomma, colonizzazione razionale; e di ridurci, infine, a un tipo di atteggiamento mentale che sia, come ho detto altrove, "inconsapevolequel tantochebastae consapevolequel tantocheserve" a dare luogo al crescere, al costruirsi del poema. In modo tale, dunque, che quel crescere e quel costruirsi siano piuttosto secondo la "volontà" del poema che non secondo la nostra, secondo le ragioni del poema che non secondo le nostre, e secondo (insomma) quella che chiamerei una controllata spontaneità. A questo punto spero che risulti chiarito, anche in termini di senso comune, il perché del mio titolo: perché, in definitiva, la volontà e le ragioni del poema sono pur sempre volontà e ragioni del poeta, tranne che appartengono a una zona di volontà e di intelletto che egli, in quanto homo cotidianus, non è in grado di governare ed appartengono GiovanniGiudici - 101
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