Linea d'ombra - anno I - n. 3 - ottobre 1983

racconti italiani giocare e il gioco lo prendeva in modo totale. Nella sua memoria ritrovò la storia di un ragazzo, cieco, sordo e muto per uno shock subito, ma che vedeva e sentiva quando giocava a flipper. Era in un disco degli Who. Tempi d'oro, suoi e della musica. E gli parve di essere come quel ragazzo, di rotolare nella palla, di essere quasi quella palla, levigata e lucida, che correva verso il basso, inarrestabile, che cercava di superare la difesa, di finire nel buco, e invece veniva respinta verso l'alto, ancora. Da lui. Perché lui non era soltanto la palla, ma anche chi lottava contro la palla e contro la macchina, e dentro la testa sentiva gli strappi, gli squilli, i tonfi sordi delle palline vinte. E continuava a giocare. Si perse completamente. Per quindici minuti non fu altro che un giocatore di flipper, e non gli sembrava nemmeno che fosse poco. Poi per l'ultima volta la palla rotolò alle spalle della sua difesa e la macchina tacque. Sul petto della donna apparve la scritta game-over. Lui si riscosse. La donna, quella del bar, lo stava guardando. Nessuno era entrato nel locale, la tazza del caffè era ancora sul banco. Lo bevve, quasi freddo, e pagò. Fuori ritrovò il caldo, l'auto e la sua decisione. Era giusto così. Ora basta. Prese il gettone, che aveva ancora in tasca, e lo gettò in un cestino per i rifiuti. Ora basta. Davvero. La casa si disegnava precisa dentro le sue linee. Come in un gioco le sue finestre, le sue porte, si stagliavano regolari dal fondo uniforme. Un insieme di assoluta chiarezza, di regolarità, di realtà. Poi improvvisamente, esplose. La nettezza delle righe si frastagliò in un rivolo di luci, le linee si frantumarono fino a formare corone e fiori incomprensibili, i muri sparirono, riprendendo la trasparenza di prima. Come un gomitolo il disegno si srotolò perdendosi sul margine del lucido e lasciando come ultimo baluardo della concretezza le righe millimetrate e il braccio del tecnigrafo. Giovanni alzò gli occhi verso la finestra. Lo studio era deserto. Se n'erano andati tutti, sconfitti dal caldo e dall'estate, dal ripresentarsi cadenzato delle stagioni. Il tempo vinceva con una regolarità esasperante. Sentì il telefono. Uno. Due. Poi silenzio. Chissà chi era stato, non ci pensò che per un attimo, poi fu di nuovo preda del sole che straripava nella stanza come un fiume. Era sudato e annoiato. Bagnato e stanco. Forse era arrivato anche per lui il momento di arrendersi. "Stasera vado al mare da Clara" pensò. E gustò per un attimo il senso dell'acqua, intorno ai polsi e alle tempie. Il riposo. Si guardò riflesso nel vetro di un quadro sulla parete. Era arruffato come un bambino sudato, con la camicia spiegazzata fuori dai pantaloni. Eppure, nonostante tutto, si sentiva tranquillo, per aver lavorato, per aver parlato con la gente, per aver vissuto regolarmente una giornata come un'altra. Era pronto a tornare a deprimersi, secondo la sua inesorabile legge degli alti e bassi; ma fra cinque minuti, magari dieci. Ora no. Ora voleva respirare l'aria calma di un pomeriggio d'estate, gustarsi un momento in cui gli piacevano il suo lavoro, la sua vita, quello che faceva. Andò vicino alla finestra e guardò la strada. Una donna uscì dal portone, quasi correndo, il suo viso per un momento si girò verso l'alto, cercando qualcuno. Gli parve bella, con una massa di capelli scuri ondeggianti che le volavano sul viso. E mentre la guardava, cercò di immaginare la sua storia. Gli piaceva domandarsi da dove le persone Giorgio van Straten - 53

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