raccontiitaliani vuoto che aveva nel cervello era legato a un altro vuoto, nella realtà. No, non sarebbe rientrato, doveva riuscire a ricordare senza vedere. Esercitare il cervello era una sua fissazione. Non rimbecillire prima dei"tempo. O meglio, mai. Ma non ce la faceva, quando era vicino la sua capacità di concentrarsi cedeva. Si arrese. Tornò indietro lentamente. Forse proprio ora che non si sforzava più, gli sarebbe venuto in mente. Vide l'ombra sul pavimento. Poi niente, di nuovo. Entrò nel salotto. Ne seguì i contorni con gli occhi. Le ceramiche, i mobili, i libri. Improvvisamente capì. Guardò il pannello. Mancava una pistola. Ecco cos'era, certo, la mano, l'ombra, la pistola. Ma chi l'aveva presa? Perché l'aveva presa? Ora la nebbia era più spessa di prima e non c'era salotto dove andare a vedere. Chissà da quanto tempo mancava senza che lui se ne fosse accorto. Si guardò intorno, si sentì un incapace. Avrebbe chiesto la sera a Filippo e a Giovanni. Forse loro sapevano tutto. Si avvicinò al pannello, per l'ultima volta cercò un indizio possibile. Sui supporti che tenevano la pistola sparita non c'era polvere. Ecco, di questo poteva essere sicuro: mancava da poco. "Per ora può bastare" pensò. Poi uscì dalla stanza e salì le scale. Si sentiva come un detective sulle tracce di un assassino. Ma non sapeva ancora che non sarebbe stata quella la sua indagine. Aprì lo sportello. Sull'orizzonte la terra tirava fili invisibili tesi intorno al sole, lenta ma decisa, come un ragno con il suo insetto. Ormai non c'era bisogno di foglie per vedere la palla arancione, grossa come un melone, che cadeva, riflessa sul vetro della porta del bar. Forse dentro faceva meno caldo. Così entrò con le mani in tasca e la testa vuota come una scatola di latta. Non c'era nessuno, oltre a lui e a una donna che puliva il piano del banco con uno straccio. - Un caffè e un gettone - le disse, rispondendo alla sua espressione di indifferente attesa. - Ecco a lei, il telefono è là in fondo, accanto al flipper. - Lui ci andò, infilò il gettone e mise, incerto, il dito nel disco. Uno. Giulia. Compose tre numeri. Quattro. Poi si fermò. Sentiva la voce di lei, immaginava le cose che gli avrebbe detto, che gli diceva da sempre, e oltretutto aveva anche ragione. Capì che al quinto numero non sarebbe stato nemmeno sicuro di amarla. Riappese la cornetta. Due. Il babbo. Arrivò fino al sesto numero e due squilli. Poi riattaccò. Era inutile girare intorno alle cose, aveva deciso o no? Oppure cercava qualcuno che lo fermasse, che impedisse ai fatti di evolversi secondo i piani che lui aveva stabilito? Non poteva aspettarsi nulla da loro che non gli avessero già detto o dato, allora era assurdo coinvolgerli ora, distribuire sensi di colpa che non meritavano. No. Tre. Una partita a flipper. Meglio. Cinque palle, cento lire. Infilò la moneta e le luci si accesero. Il flipper parve caricarsi, preparandosi alla lotta, poi sputò una pallina nel corridoio di partenza. Via. La palla uscì nella parte superiore del quadrante oscillando fra i due respingenti di gomma prima di piombare verso il basso, in un turbinio di luci e di rumori. Il flipper era di tipo vecchio, non elettronico, più umano, lo preferiva. Nel tabellone segnapunti una donna, poco vestiva, seduta su un tavolo osservava un cowboy che, con lo sguardo truce e due pistole in mano, era appena entrato nel saloon. E come due pistole erano i pulsanti che premeva, mentre continuava a 52 - Giorgio van Straten
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==