raccontiitaliani peto. Ora non riusciva più a liberarsene. Salì in bagno a bagnarsi il viso e il collo. Il fresco dell'acqua. Si sentì uscirefuori dal mondo ottuso e opaco in cui si trovava. Tornò a udire, a vedere. Ma parlare quello non poteva. Non c'era nessuno. Scese le scale, entrò nel salotto, si sedette sul divano. Sul tavolo di fronte a lui c'erano una penna e un foglio bianco. Doveva averli lasciati lì Filippo, probabilmente. Filippo ci scriveva sopra, a lui invece sarebbe piaciuto disegnarci. Non era bravo e gli dispiaceva, perché sentiva il bisogno, la voglia, di riprodurre le coseche amava, di fermarle. La campagna, i volti, i gesti quotidiani. Aveva anche provato a fare fotografie, ma era diverso, non funzionava. Non rendevano mai l'amore che lui aveva per quelle cose. La porta di casa si aprì e si richiuse. Sperò che fosse Filippo. Filippo. Filippo. Era un po' di tempo che si salutavano appena, lui sembrava quasi arrabbiato, comunque poco propenso a starlo a sentire. Ma forse ora no. Ora lo avrebbe ascoltato, avrebbero potuto parlare di nuovo insieme. Era sicuro che si sarebbe ancora capiti, che tutto sarebbe stato chiarito. Filippo. Filippo. Filippo. Nel vano della porta apparve il viso di Vittoria. - Ah, c'è lei, signor Antonio. - - Già - rispose deluso. Lei lo osservò. - Si è stancato oggi a andare in città, vero? Glielo avevo detto che era il giorno meno adatto, con questo caldo. - Antonio fece uno sforzo per ricomporre il viso, che sentiva troppo rilassato. - Sono proprio così brutto a vedersi? - - Ma no, non lo dicevo per questo - imbarazzata abbassò gli occhi. - Vuole che le prepari qualcosa? - - Si, grazie Vittoria, un tè. - - Subito - disse lei e scappò via. Antonio sorrise. Il sole che entrava dalla finestra si spandeva sul pavimento come un olio polveroso. Lo attraversò con la mano e guardò l'ombra che si proiettava per terra. Si mise a comporre figure. Fece un cane e un coniglio. Poi si dimenticò della mano e di molto altro e cominciò a vagare con gli occhi per il salotto. Rimase così a lungo, come ipnotizzato da ogni piccolo e singolo oggetto, perso dentro i mille colori della stanza, lontano. Era ancora così, quando Vittoria entrò con il tè. Lo posò sul tavolo. · - Ha bisogno di altro? - gli chiese. - No, Vittoria, nient'altro, grazie. - Solo allora si ricordò della mano e la guardò. Gli erano rimasti tesi l'indice e il medio, mentre le altre dita si erano come rattrappite. L'ombra gli ricordò una pistola. Così alzò lo sguardo verso la parete, dove stava la collezione di suo padre. Le chiamano associazioni mentali, pensò. La osservò per un po', senza troppa convinzione, poi si tirò su e bevve il tè. Uscì in giardino. Il caldo era ancora intenso, anche se le siepi e le aiole gli riposavano gli occhi. Ma si sentiva già meglio, più forte, con dentro la solita decisione e volontà di fare. Aveva dei progetti, alcuni avviati, altri che già gli crescevano nella testa. Anche per quella volta si sarebbe salvato, la morte l'avrebbe dovuto aspettare ancora. Stava fermo in mezzo al giardino quando la sensazione che già gli ronzava nellamente da qualche minuto si fece più chiara. C'era qualcosa che non tornava, in salotto. Non capiva che fosse, ma era sicuro che quel senso di Giorgio van Straten - 51
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