racconti italiani La città era vicina. Appariva improvvisa dietro una curva come una bestia in agguato. Ma era impressione di un attimo, poi ti colpiva la sua sonnolenza di bue. Prima di arrivarci prese una strada laterale, che risaliva, lenta, nel bosco e si fermò presto, sul ciglio inspessito d'erba. Ascoltò l'aspettato silenzio, spento il motore. Lo colpiva sempre quella sensazione, quando si fermava improvvisamente. Gli ricordava un incidente che aveva avuto da piccolo, in auto, con sua madre, e il dopo, seduto su un lato della strada, con la corsa delle altre macchine, che continuavano a andare, dentro le orecchie. Aveva sperato di sentire lì una nuova tranquillità ma, anche disteso nell'erba, gli occhi non lo lasciavano in pace. Saltavano impetuosi su ogni cosa, impedendogli di pensare con calma e finivano sempre dentro il finestrino dell'auto a guardare l'asciugamano appoggiato sul sedile. Eppure la campagna gli aveva sempre dato un senso di isolamento e rifugio. Ma ora no. Neppure la natura era un fatto oggettivo, incontrovertibile. Fermò la sua mente prima che annegasse in inutili reminiscenze di filosofia liceale e rientrò nell'auto. Rifece la strada in senso inverso. Cercò di pensare le facce della gente, degli amici, di Giulia. Si sforzava di delineare con chiarezza i loro volti e i loro tratti. Gli occhi, i nasi, le bocche. Ma non trovava che sensazioni, inpressioni fugaci, lampi anatomici. La città l'ingoiò d'un tratto, senza preavviso, con le sue case indistinguibili, il suo traffico lento, i pullman turistici. Si fermò a un bar per bere un'aranciata. Comprò le sigarette. Rientrando nell'auto tastò l'asciugamano, simbolo innocuo di una possibile nuotata in piscina, e sotto trovò il duro che si aspettava. E sentì la nausea arrivare, salire dallo stomaco come una marea e ondeggiargli dentro il cervello. Si guardò nello specchietto retrovisore. Stupito osservò una faccia uguale a quella sua di sempre, di tutti i giorni. Se l'era aspettata piena di smorfie e di angoscia. Invece niente. Rise. Un bambino che passava si appoggiò con il naso al finestrino e guardò dentro. Con gli occhi sembrò chiedere di poter ridere anche lui. Le mani, piccole, premevano il vetro come due ventose. Poi come spaventato si staccò dall'auto e raggiunse di corsa la madre di fronte alla vetrina di un negozio. L'uomo della macchina, ora, stava piangendo. La casa era senza voci e priva di moto. Così entrando cercò di fare più rumore possibile con le scarpe e le porte. Non va bene per niente. Le parole del dottore vorticavano senza avversari nella sua testa. Non va bene, non va bene per niente. Lui lo sapeva: era il caldo e l'estate, altro che storie. Era andata così anche l'anno prima. Si sentiva soffocare per l'afa. Ma il cuore reggeva, sì, reggeva, lo sentiva, ne era sicuro. Aprì la porta finestra che dava sul cortile e vide Custer venirgli incontro. - Dov'è Filippo? Eh, dov'è? - Gli dava fastidio non aver trovato nessuno in casa, non poter parlare, sfogarsi discutendo d'altro, dimenticando. Perché non avrebbe parlato a nessuno della sua malattia, tanto nessuno lo capiva, neppure il dottore. - Ora basta, Antonio - gli aveva detto, e non aveva voluto ascoltare il suo parere su un cuore con cui viveva da quasi settant'anni. Era fuori dalla mattina presto e si sentiva stanco, ancora immerso nelle sensazioni di quella giornata impossibile. La città l'aveva accolto sudando un vapore pesante, con l'asfalto delle sue strade che respirava miraggi. Il caldo era apparso lì, intorno a lui, concreto e tangibile, spesso come un tap50 - Giorgio van Straten
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==