racconti italiani pe, nè il nonno, nè il cane. Tornò indietro in mezzo alle aiole. Infilò un proiettile nel tamburo. Richiuse la pistola. Alzò il cane. Lo sparo echeggiò sulle mura della casa e rimbalzò verso i campi, perdendosi nel vuoto sopra la valle. Filippo si avvicinò all'albero e vide, netto, il segnodel colpo penetrato nella corteccia. Aprì l'arma e estrasse il bossolo. La pistola funzionava perfettamente. La terra è bassa. Già. L'aveva sentito dire fin da bambino e gli sembrava orl1)aivero come una pietra. Anche la natura sembrava averglielo fatto capire, curvandolo con gli anni come un ramo carico di mele. Così ora il terreno lo vedeva più da vicino. Il vecchio Quintilio. Lo avevano chiamato così perché al babbo non venivano in mente più nomi, dopo gli altri quattro fratelli, tutti maschi. E già aveva fatto uno sforzo, visto che in paese c'era anche chi si chiamava Secondo. Giuseppe e il cane correvano come matti sul bordo del campo, per conto loro, come se lui non esistesse.E lui invece, ogni tanto, si fermava e li guardava perché gli facevano tenerezza, il bambino, e anche la bestia. Poi riprendeva a zappare nel piccolo orto che aveva ricavato da un angolo del terreno, dove i filari non arrivavano e il grano sembrava venire su più stentato. Era da due o tre anni che aveva cominciato a piantarci le zucche e i pomodori. Il caldo era soffocante, e lui sudava molto, nonostante il fazzoletto in testa, annodato ai quattro angoli, che aveva inzuppato nella fonte. Oltre la siepe, accanto al campo, la strada che scendeva dalla villa respirava polvere e immobilità. Anche il cane e il bambino si erano fermati, distesi sotto l'ombra di un albero. Quintilio si fermò di nuovo appoggiato alla vanga. Qui stava tranquillo, non vedeva che piante e terra. Nel campo sotto la villa invece, dove era prima, la presenza degli uomini incombeva sempre e lo disturbava. Non gli piaceva parlare, ancor meno con i Castellari, che, per quanto brava gente, rimanevano sempre i suoi padroni. Una lucertola stava sotto il sole, in mezzo al viottolo, così immobile da sembrare morta o scolpita. Quintilio prese una zolla e gliela tirò, la lucertola schizzòvia dentro l'erba del fosso. Di nuovo fu luce e silenzio. E poi fu il rumore di un motore e il caratteristico sfrigolio delle ruote sopra il ghiaino e lo sterro. Quintilio guardò verso l'alto, anche se sapeva che ci voleva un po' perché dalla villa arrivassero lì. Anche Giuseppe e il cane si erano alzati in piediper vedere. Dalla curva sbucò la macchina di Filippo e il bambino agitò la mano per farsi vedere. Ma il giovane Castellari (lo chiamavano tutti così, col cognome del nonno) guardava dritto davanti a sè e sembrò non vedere che la strada e la siepe ai suoi lati. Quintilio si passò una mano sulla facciaquasi per non pensare alla nuvola di polvere che si gonfiava di caldo sopra il campo e tra gli alberi. Poi sputò nelle mani, sollevò la vanga sopra la testa e la calò sulla terra. In basso. L'afa avvolgeva tutto come una sciarpa di caldo. L'auto sussultava sul fondo incerto della strada, che nessuno si era mai deciso a asfaltare: era più bellacosì, ma più scomoda. I campi gli scorrevano ai lati del viso, come cartoni animati. Un fotogramma, un tronco, un fotogramma, un tronco. Non ci fecequasi caso, nè a quelli nè alla strada, e quando ne uscì, per immettersi nella provinciale, non ricordava neppure di averla percorsa. Questione di automatismi. Giorgio van Straten - 49
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