Linea d'ombra - anno I - n. 3 - ottobre 1983

raccontiitaliani che si ricava di solito dal mutamento di oggetti un tempo noti e che si ricordano più grandi. Lui Ii aveva sempre continuati a vedere, così erano mutati con lui, anche se in senso inverso. Il cane grattava alla porta di cucina, voleva entrare. Parola d'ordine: far finta di niente. Sul tavolo basso accanto a lui, una penna e un foglio bianco, di cui aveva ormai scordato la presenza e l'uso. Finalmente si mosse. La mano corse, incerta, lungo il bordo del divano e toccò il tappeto per terra; aperta scivolò a destra e sinistra, fino a trovare il pacchetto di sigarette e l'accendino. Sentì il fumo dentro i polmoni e il caldo dell'estate che entrava dalla finestra. Voltò la testa verso destra e registrò il brusco mutamento di immagine: da un soffitto bianco a due vecchie stampe con scene di caccia. Non che le vedesse, erano tutte sfuocate nella sua testa, ma le macchie scure erano identificabili dalla sua memoria, più chiaramente del senso delle parole che si rincorrevano nella mente, come possibili e false definizioni del suo stato d'animo: confusione, noia, angoscia, stanchezza, rifiuto, insofferenza, rimbecillimento, insoddisfazione, cinismo. E ancora (chi più ne ha ... ). Si alzò e uscì fuori: Il giardino bolliva di caldo, di silenzio e di odore di cane. Camminò nel prato e fra le aiole, come stranito e incerto, pensando a vecchie cose, a immagini galleggianti, come fiori spezzati dal pallone e cani morti da tempo. Poi passò la siepe d'alloro e fu in mezzo ai campi. Lì la luce era ancora più intensa e abbagliante, forse per l'assenza di verde. Strinse le palpebre, ma lo stesso per un po' non distinse che macchie e ombre sfumate. Poi oltre il campo di grano, che strepitava di cicale, subito sopra la vigna, vide il vecchio Quintilio immobile accanto a una carriola. Ma non era lui che l'aveva attratto, fermo com'era l'avrebbe potuto sbagliare per una pianta più curva. Quello che l'aveva colpito era il cane. E il bambino. Correvano tutti e due, davanti la bestia e dietro Giuseppe, con in mano un pezzo di carta che forse gli serviva da cappello. Giuseppe era il nipote di Quintilio, sei anni e capelli biondi. Lo aveva già visto qualche volta scorrazzare per la cucina, quando la sua mamma andava a aiutare Vittoria. Aveva le guance rosse e piene, le gambe grasse, come i bambini piccoli, e due occhi scuri e velocissimi. Ora stava correndo dietro il cane e continuamente inciampava, ma non si arrendeva. Si fermò solo quando udì il nonno salutare qualcuno. Si voltò e incontrò lo sguardo dell'uomo in cima ai campi, sotto la siepe della villa. Sorrisero. Allora ti vuoi fermare, Tim? Non ti posso correre dietro così, vado più piano di te. E poi c'è caldo, sudo e la mamma si arrabbia. Ti metti anche a abbaiare? Che hai? È la voce del nonno che saluta qualcuno. Ora basta, tu corri pure, io mi fermo e guardo chi è. Filippo! Hai visto, Tim? Andiamo, vieni dietro a me. Non vuoi? E allora stai lì, io me ne vado lassù in cima, da lui. II grano è cresciuto ed è tutto giallo, nel mezzo ci si perde. Ma io mi ci posso anche nascondere, se·voglio, a fare giochi solo per me. Ci ho fatto una buca e messo dentro i soldatini morti in battaglia e quando mi va posso ritrovarli e tirarli fuori. II campo è finito. E il grano. Sono davanti a Filippo-, che mi sta sorridendo. 46 - Giorgio van Straten

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