Linea d'ombra - anno I - n. 3 - ottobre 1983

raccontiitaliani tempo, un lavoro talvolta molto pesante, come spostare cavalli ed altri attrezzi ginnici che non riesco a sollevare e posso solo far strisciare, o lavare in ginocchio con straccio nella mano e secchio di fianco trenta metri di gradinate per il pubblico. Ma mi piace, preferisco così che non un lento ininterrotto lavoro di media fatica. Mi piacciono questi lavori manuali, soprattutto quelli di pulizia, gesti ormai acquisiti che lasciano la mente libera. E io ho molto bisogno di avere la mente libera, per ricostituire la quantità di energia che spreco vivendo. Questo lavoro, proprio perché nel settore pubblico, non mi consente quella varietà di apprendimenti sulla natura umana e i rapporti di potere che avevo cominciato a intravvedere con Marchese, poiché il mio padrone adesso è un'entità astratta della quale non conosco il colore dei calzini, grande risorsa dei servi di ogni epoca. A rigor di logica, non sono una serva. Mi offre altri vantaggi, però. L'anno scorso per esigenze di servizio dovetti sostituire il custode di questo complesso nel turno serale, una sera alla settimana tutte le settimane, e questo turno per cui i colleghi mi compiangevano di tutto cuore divenne per me una grande delizia. Non perché non dovevo pulire, essendo le palestre di sera sempre occupate, per cui il mio lavoro consisteva nello stare seduta in un gabbiotto di vetro nell'atrio, vicino al centralino, leggendo un libro, quanto perché in tal modo avevo tutta la giornata libera, e soprattutto perché l'essere sola, in quel grande edificio isolato nel buio e nel freddo esterno - lavoro in un quartiere di estrema periferia - mi piaceva moltissimo. Percorrevo a bella posta gli enormi corridoi dei piani superiori, tutte le luci accese, oppure, se lo preferivo, nel buio più nero, deliziata della mia paura di quel buio nei grandi corridoi vuoti, sulle scale ampie, nei seminterrati. Lavorare e giocare. Portavo il grande mazzo delle chiavi di tutte le porte. Talvolta cantavo. Mi è capitato spesso di sentirmi clandestina, e se talvolta ho amato questa sensazione, non volendo essere conosciuta, ri-conosciuta, svelata (scoperta), la clandestinità è però insopportabile, la mente si sente accerchiata, braccata. E adesso, questo lavoro ha quasi conciliato le due opposte esigenze. Anche per questo lo amo. Io non sono nessuno, sono quella che pulisce le palestre. Nessuno si interessa a me, nessuno mi svelerà, né scoprirà, né riconoscerà. Posso vivere ignota e sicura. Ma ho questo mazzo di chiavi, che non hanno né i professori, né gli studenti, né i segretari. Io ho il diritto di usarlo, io e non altri. Posso entrare ovunque, non sono esclusa da nulla, sono io la vera padrona di questo luogo, come di casa mia e della mia vita. Clandestina ma padrona, vincente. Benedetta Arola - 21

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