racconti italiani vai parte del soffitto del bagno sul pavimento. Affascinata da quel disastro, contemplai Marchese sotto i calcinacci, poi lo sostituii con me stessa. Pensai anche che sarebbe stata una buona occasione per rifare il bagno. Far sparire le tracce della catastrofe, clie meritavano di venir conservate nella loro evidenza, era invece meno eccitante, e non sapevo decidermi a cominciare. Misi mano ai calcinacciavvicinandomi poco a poco al luogo dove Marchese giaceva, sepolto sotto la frana più imponente. Quando lui comparve sulla soglia, ancora indossando il suo pigiama rosso vino, l'avevo già quasi disseppellito. Non sospettò mai nulla. I battenti delle porte si chiudevano male o non si chiudevano affatto, e se per caso si chiudevano c'era la possibilità che non si aprissero più, come mi capitò quella volta che stavo pulendo il bagno e rimasi chiusa dentro. Va da sé che ero sola in casa. Un quarto d'ora di reiterati tentativi, con ogni genere di attrezzo che riuscii a trovare, furibonda con me stessa e sudata fradicia per l'agitazione. Infine l'unica possibilità. Ricordavo di aver spalancato la porta-finestra sul balconcino, nel soggiorno. Appena lui usciva, correvo sempre a spalancare tutte le finestre dell'alloggio. In questo gesto non di rado mi vedevo, riparatrice di antenne, percorrere i tetti con passo allenato, alla luce del sole. Altre volte, nelle albe d'inverno, erano i passi notturni e furtivi del gatto quelli che poggiavo silenziosamente sulle tegole pericolanti. Quella mattina fu del tutto diverso. Scavalcai il davanzale del bagno, slittai sulle lose di ardesia spostando le natiche dall'una all'altra. Ero una ragna che avanzava di traverso, puntando attorno a sè le z.ampeprotese. Era inverno, faceva un freddo terribile,ma io che avevo una gonna molto stretta me l'ero tirata su all'inguine per avere i movimenti liberi. Ero soprattutto terrorizzata che qualcuno mi vedesse dal cortile o dagli altri abbaini. Le mie zampe erano congelate dal freddo e screpolate dalla pietra, e il cielo pesava su di me, dello stesso grigio del tetto. Ma quel davvero dava l'idea della totale degradazione dell'appartamento era la massiccia presenza di cadaveri di scarafaggi. Marchese usava, e mi fece usare, anziché i soliti prodotti a spruzzo in commercio, una polvere bianca finissima; pareva cipria o coca o piuttosto polvere di cemento, e si usava così: la spargevo sul pavimento lungo tutto il contorno dei muri il martedì, e il venerdì quando arrivavo trovavo dai dieci ai trenta, il numero variava a seconda delle stagioni, cadavéri di scarafaggi rinsecchiti, adagiati quale sulla schiena quali sulla pancia; li raccattavo con scopa e paletta, li buttavo via. Tornavo il martedì successivo, e raccattavo altri dieci-trenta scarafaggi col sorriso della morte sul volto, tornavo il venerdì, altro raccolto, e così via per un mese. Dopo un mese scopavo e lavavo via dai bordi e gli angoli del pavimento quella odiosa polvere che si rifiutava di scomparire nonostante fosse ormai inefficace, almeno a quanto diceva la confezione, e sempre riaffiorava, come il gesso. Poi ne mettevo di nuova, e ricominciava la Benedetta Arola - 15
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