Linea d'ombra - anno I - n. 3 - ottobre 1983

raccontiitaliani Ingresso a Castelvittorio Avevamo perduto di vista l'ultimo borghese ad Arma di Taggia, nella trattoria piena di ufficiali e di soldati avvolti in una comune nebbia di fumo, dove consumammo, con un sentimentalismo quasi deamicisiano, l'ultimo pasto civile. Alle 2 l'autocorriera ci trasportò a Molini di Triora e di lì, dimenticata definitivamente la malinconia della caserma, posso dire che cominciò la nostra vera vita di guerra. A Molini ci accantonammo: un accantonamento simpatico, su giacigli disposti l'uno sull'altro, sì che avemmo l'impressione, adagiandoci sulla paglia ancora pulita, di trasformarci in frutta preziosa messa a maturazione. Era un luogo militarmente preparato, pieno d'afrore soldatesco e ingombro di muli, questi bene accerchiati intorno a una grossa pianta che faceva perno alla piazzuola. Ma fu un accantonamento troppo breve, ché già nella notte successiva eravamo in marcia verso la frontiera, sulla monotona polvere d'una strada di monte, dove ogni tanto, fragorosamente rapida, passava un'autocarretta; ovvero l'immagine nuova dei carabinieri in tenuta di guerra, con la lucerna bigia, interrompeva la nostra marcia a un qualche posto di blocco. E come i nostri passi si posavano, uno dopo l'altro, su quella monotona polvere, ci sentivamo sempre più staccati dai colori della città, lasciata nella sua stagione di leggerissime tinte: le vesti femminili, tanto chiare e delicate sulla spaziosa pietra dei piazzali urbani, i visi noti dei familiari e dei concittadini, le case fresche sul mare. Di esse non ci resterà, a lungo, che una nostalgia sempre più acuta: tanto il grigio e il verde, riassunti nel nostro grigioverde, soffocheranno di giorno in giorno quei colorati ricordi. E a rendere ancora più monotono quel grigiore, anche il lume del cielo si spense, e una pioggia fitta ci colse dopo qualche chilometro, adeguando alla immagine che me n'ero fatta, per racconti così spesso uditi da ragazzo, l'aspetto del teatro militare. Presto, per il sudore della marcia e per l'acqua piovana, fummo avvolti in una specie di vapore così tepido e chiuso, dove i nostri volti e le nostre voci parevano recludersi. Pure fu in quel fiato opaco che, per l'intimità creata, i lineamenti dei compagni cominciavano a divenir fisionomie, frutto cioè di una prima scelta. Perché in quella nuova nuvola umida e calda, mentre la colonna avanzava con tutto il suo sudore, eravamo come dentro una stanza, quasi costretti alla comunione pur se nel petto era tanta fatica per sostituire, con quelle cere nuove, le immagini remote che ognuno si portava accese nel cuore. Con la pioggia, e mentre quei volti assumevano uno per l'altro netti lineamenti, cedendo la luce del giorno alla notte giungemmo a Castelvittorio, e fu un ingresso di salmerie lucide d'acqua e di divise d'un grigio fattosi nero in un paese del tutto disabitato, di case cariate e cieche, incrostate una addosso all'altra sui roccioni del monte. 128 - Giorgio Caproni

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