Linea d'ombra - anno I - n. 3 - ottobre 1983

vorando con i bambini, non troppi anni prima (1956-57), e quando avevo visto il film per la prima volta, una delle prime in cui ero venuto a trovare i miei nella banlieu parigina dove erano tornati a emigrare per sopravvivere, ero scoppiato in un pianto quasi isterico, tanto Bunuel aveva capito e saputo rendere la realtà del sottosviluppo, della miseria, della tragedia dell'infanzia nelle città del "terzo mondo" (e allora Palermo era tale). Gli dissi però che la realtà che aveva narrato era molto meno impressionante che non quella del mio quartiere palermitano, Cortile Cascino, e se ne sorprese, come una decina d'anni dopo si sorpresero certi compagni dell'Olp quando, visitando Tall-al-Zaatar a Beirut, dissi loro che in Italia, prima del boom, avevo visto di peggio. Così, insensibilmente, la chiacchierata con Bunuel si trasformò in una specie di intervista di Bunuel a me. La mia famiglia, i miei studi, e perfino i miei sogni. Non scherzo: mi chiese davvero di raccontargli un mio sogno recente, e io, conquistato nel mio narcisismo, glielo raccontai. Non ricordo il sogno, ma ricordo che era stato originato da un incontro a una fermata di autobus, pochi giorni prima, davanti al Luxembourg: una donna mi aveva improvvisamente aggredito urlando come un'invasata: "c'est la faute à vous, c'est la faute à vous!", e questo mi aveva letteralmente sconvolto. Vivevo allora di sensi di colpa; per aver abbandonato Palermo, per una storia d'amore che avevo fortemente contribuito a far degenerare; per tante cose oggetive o nascoste. La sua curiosità (ormai ci sentiva benissimo, avevo trovato il giusto volume di voce) mi lusingava, ma la mia timidezza mi salvò, credo, da ogni insincerità. Poi si parlò di preti. Essendo italiano, avevo avuto un'educazione cattolica? avevo servito messa? Quando gli dissi che si, che fino a dodici anni avevo servito messa ma che a quell'epoca capii che mio padre, socialista e semianalfabeta, aveva forse ragione quando diceva che Dio o discussione "non c'era o era un fascista", si mise a ridere, e mi recitò la frase d'apertura della messa in latino, aspettandosi che io proseguissi: "Introibo ad altarem Dei", e io: "ad Deum qui laetificat juventutem meam". Sembrava divertirsi un mondo, e mi disse qualcosa come: "non se ne vergogni, di aver servito la messa, quelli che non l'hanno servita, per esempio i critici francesi, certe cose non potranno mai capirle". Perché racconto queste cose? Un po' per vanità, certamente. I due registi che ho più amato, Bunuel e Lang, ho avuto modo di conoscerli, sia pure superficialmente, entrambi, e questo mi inorgoglisce molto. (Quando, dopo aver intervistato Lang assieme agli amici di Positif a Venezia, lui a letto in una stanza dell'Excelsior, spiritosissimo e divagante e un po' ripetitivo, scendemmo nella hall con lui, c'era al bar Bunuel, e qualcuno, credo Coment, propose un incontro; Lang fu subito d'accordo, ma Bunuel rispose al nostro emissario con un "no" secco e deciso, che mi spiego solo con certe sue durezze da vecchio surrealista per il quale "la necessità di mangiare non scusa la prostituzione dell'arte" e per il quale Hollywood era un modo di prostituirsi: è nota la sua antipatia per Renoir da quando accettò di venire nell'Italia di Mussoliru per girarvi la Tosca, o la sua critica alla scena dell'omicidio di Janet Leigh in Psyco di Hitchcock, ecc.) C'è forse una ragione nascosta nel fatto di aver conosciuto loro e non altri miei "idoli" di gioventù: Gadda lo vidi solo da lontano, alla libreria Einaudi a Roma, ma non osai avvicinarlo; Breton ai Deux Magots; Totò una notte che girava a corso Vittorio con la Magnani Risate di gioia; ma con Breton avevo un appuntamento per intervistarlo su Crevel, strappato attraverso i soliti amici, e morì pochi giorni prima della data fissata; con Totò avevo un appuntamento a Roma, ma mi fermai a Firenze proprio quel giorno per una delle primissime manifestazioni sul Vietnam, e il giorno dopo a Goffredo Foji - 123

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