raccontistranieri della verità sulla radio, e quell'enorme, folle energia che, con uno stupendo atto di fede, aveva impiegato nel creare una realtà a partire dall'aria inconsistente e leggera aleggiante tra la mano ripiegata e l'orecchio. (traduzione di Maria Teresa Marenco) Il colloquio Col progredire del colloquio, diventava sempre più chiaro che non avrei avuto quel lavoro. La mia considerevole esperienza di situazioni del genere mi aveva reso sensibile in modo quasi preternaturale alle verità inespresse che si nascondono dietro la neutra formalità che le contraddistingue, come cecchini dietro un parapetto. Le prime volte avevo incolpato me stesso dei miei fallimenti: probabilmente la giacca che avevo indossato era inaccettabile, avevo una macchia sulla cravatta, avevo interrotto le domande un paio di volte. Feci del mio meglio per correggere i miei difetti - incuria nel vestire, eccessivo entusiasmo, una cert'aria insolente che poteva far pensare che mi reputassi superiore al lavoro che mi offrivano. Diventai ordinato, gentile, umile. Ma il risultato dei colloqui era sempre lo stesso. Così decisi di provare con l'arroganza. Andavo ai colloqui con i capelli volutamente arruffati, i lacci delle scarpe sciolti, la lampo dei pantaloni chiusa solo per metà. Guardavo con un sorriso canzonatorio l'avversario in doppiopetto, inespressivo, dietro la scrivania, e gli dicevo cosa non andava nella sua azienda e cosa avrei fatto io per rimediare agli errori se mi avessero concesso un paio di giorni e carta bianca. A volte gli schioccavo le dita sotto il naso. La fortuna si rifiutava di girare. Poi provai con l'ipocrisia. Cominciai a fare dichiarazioni eloquenti, testamentarie, ai miei inquisitori, promettendo eterna devozione alla grande impresa di fotocopiare fatture, confezionare pacchi di biscotti per cane a forma di osso, vendere macchinari agricoli, imbottigliare una bibita sintetica all'arancia che, mi era stato detto, "non conteneva arance nocive". Gli occhi dilatati dalla sincerità, supplicavo che mi dessero l'occasione di dimostrare la mia dedizione a quel tipo di lavoro. Non mi venne mai data. Alla lunga, cominciai a disperare. Continuai ad andare ai colloqui, per dimostrare che ero ancora vivo, ma non mi aspettavo più niente. Fissavo la faccia affabile dell'ultimo dei miei intervistatori - la stessa faccia che avevo visto dietro un centinaio di scrivanie simili e sopra un centinaio di analoghe anonime camicie bianche - del tutto convinto di essere sul punto dì fallire un'altra volta, quando la ragione di tutti i miei guai mi folgorò la mente. Era così semplice che mi infuriai con me stesso per non essermene accorto prima. Sa/man Rushdie - 101
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