Linea d'ombra - anno I - n. 3 - ottobre 1983

numao 3 • ottobnt 1983 • llre 5.000 trimestrale di narrativa ORWELLSUGANDHI WOLF- 8RANDYS - CAPRONI- ·eARILLI HAMMETT- WENDERS GOROIMER- NAIPAUL- RUSHDIE GIOVANI NARRATORITALIANI . UN POEMETTODI JONATHANSWIFT

Le moschebianche Testiineditiepagineritrovate di autoriitalianie stranieri, poro conosciutio a tortodimenticati E.M. Forster Maurice La storia di un amore omosessuale, che rifiuta «l'ignoranza e il terrore» ma anche «la familiarità e il disimpegno». 320 pagine, 16.000 lire Gli altri titoli della collana: Paola Drigo MariaZef 196pagine,10.000lire Jurij Olesa Nessungiornosenza una riga 288pagine,12.000lire Stefan Zweig Novelladegli scacchi 96pagine,8500 lire Gabriele D'Annunzio Isaac Bashevis Singer Favolemondane QuandoShlemiel 212pagine,9000 lire andòa Varsavia RicardaHuch Uultimaestate 146pagine,6500lire Carlo Dossi Ladesinenzain A 272pagine, 7500lire 126pagine,12.000lire lsaak Babel' Il sanguee l'inchiostro 304.pagine,8000 lire Pier Paolo Pasolini Amadomio 208pagine,12.000lire

George Orwell Benedetta Arola Grazia Cherchi Giorgio van Straten Alfonso Berardinelli Franco Brioschi Christa Wolf Christa Wolf Kazimierz Brandys Nadine Gordimer Salman Rushdie V.S. Naipaul Goffredo Fofi Giorgio Caproni Bruno Barilli Dashiell Hammett Wim Wenders Peppino Ortoleva Tonino Guerra J onathan Swift sommario Riflessioni su Gandhi La mente libera Amici. Tre racconti Gli ultimi giorni Tipi intellettuali: ruspa, tritacarne, apriscatole, frullatore Il convitato di pietra. Risposta a Maria Corti Prolegomeni a un racconto "Cassandra" Pagine di diario 1978-1981 Un leone sull'autostrada Due racconti Storia di Natale Un pomeriggio con Luis Bunuel Due racconti L'ultimo dente del musicista Il "tempo" nel romanzo contemporaneo Narrare storie, menzogne indispensabili Circo a due piste. Dialogo sulla cultura di massa e l'America Burro. Storia per film In morte del dottor Swift LIBRI DA LEGGERE ILLUSTRAZIONI DI ELFO: OMAGGIO A HAMMETT 5 13 24 33 57 62 68 74 79 91 95 105 122 125 131 134 137 148 156 168 176

Comitato di redazione Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Severino Cesari, Grazia Cherchi, Pino Corrias, Goffredo Fofi, Piero Gaffuri, Piergiorgio Giacché, Filippo La Porta, Claudio Lolli, Maria Madema, Claudio Piersanti, Renzo Sabellico, Marino Sinibaldi. Direttore Goffredo Fofi Segretariadi redazione Mariolina Vatta Direttoreresponsabile Severino Cesari L'immagine di copertina è tratta dal quadro di Mario Schifano VeroAmore smalto su tela (1975). Ringraziamo Sctiifano e la Galleria Mazzoli di Modena che ci hanno permesso di riprodurla. "LINEA D'OMBRA" Date di uscita: febbraio, giugno (numero doppio), ottobre, dicembre. Un numero lire 5.000 Numero doppio lire 7.000 Abbonamenti: Fino alla fine dell'anno in corso l'abbonamento a quattro fascicoli è di lire 18.000, da versare sul conto corrente postale numero25871203 intestato a "Linea d'ombra". Iscrizione al tribunale di Milano in data 5-2-1983 - numero 55 Materialeinviato. I manoscritti, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si riserva di rispondere agli autori dei racconti pervenuti entro quattro mesi dal loro arrivo. Si pubblicano poesie solo su richiesta diretta della redazione. Ci scusiamo con la casa editrice ROTBUCH VERLAG per aver trascurato di indicare nello scorso numero che è essa detentrice del copyright del racconto di Thomas Brasch Sopra di noi un cielo d'acciaio. Editore: MassMedia Edizioni Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Telefono 02/273891°2711209 Coordinamentoeditoriale Edoardo Fleischner, Lia Sacerdote Pubblicità Marco Fiorentino Ufficio Grafico Carlo Canarini, Monica Ariazzi Segreteria Paola Barchi Stampa: Litourich SpA Via Puccini, 6 - Buccinasco (Ml) Telefono 02/4473146 Distribuzioneper edicole e librerie: MassMedia Edizioni Numero 3 - Lire5.000 Chiusura in tipografia il 20- I0-1983 Di questo numero sono stampate 6.000 copie

apertura George Orwell Riflessionisu Gandhi Dietro un tono colloquia/e, dietro una prosa limpida e priva di enfasi George Orwell pone, a proposito di Gandhi, alcune questioni decisive, sulla non-violenza e il pacifismo, sulla guerra e sulla politica, sulla santità e sul significato dell'amore. Se lo scrittore inglese sottolineava già 35 anni fa, pur senza pathos apparente, l'urgenza drammatica di tali questioni, "prima che i razzi comincino a volare", oggi l'urgenza non si è attenuata. Nessuno fortunatamente ha premuto il fatidico bottone, ma sarebbe difficile dimostrare che ciò è avvenuto grazie alla coerenza e alla limpidezza della sinistra occidentale. Certo Orwell, pur riconoscendo pragmaticamente l'efficacia politica dei metodi di lotta gandhiani (almeno limitatamente a quel periodo e a quel contesto storico), non amava Gandhi, non poteva amare quelli che definisce "fini ultimi reazionari", "atteggiamento inumano", "programma medievalista". Troppo distanti erano i loro mondi culturali e ideali, le loro psicologie. Una distanza che non viene minimizzata nell'articolo, da cui anzi traspare la volontà di schierarsi, in questa "età piena di guru", dalla parte di quella costellazione culturale e storica che si suole chiamare "modernità". Eppure lo scrittore, con il suo tipico "understatement venato di buonumore, riesce a darci in poche pagine un ritratto straordinariamente vivo e "umano,, di Gandhi. Forse alcune parti della polemica di Orwell risentono un po' di un certo clima politico-culturale di quegli anni, come quando afferma perentoriamente l'inconciliabilità assoluta tra valorireligiosie valori umanistici. Ma gli interrogativi che lo scrittore sollecita, con umorismo scettico ma anche con tutto il senso dell'enorme statura del suo interlocutore, rivelano un 'intelligenza e un 'onestà cui oggi non siamo abituati. Per situare e interpretare nel modo più corretto lo scritto di Orwell occorrerebbe una conoscenza non approssimativa sia delle sue opere che della dottrina e della vita di Gandhi, conoscenza che non abbiamo. Ma intanto, anche sulla spinta di un fatto cosl casuale (e probabilmente effimero) come la rinascita di interesse intorno a Gandhi suscitata dal premiatissimo film sulla sua figura, ci sembra comunque utile sottoporre ai lettori delle "riflessioni" cosl urgenti e cosl ben scritte. George Orwell - 5

apertura I santi dovrebbero essere sempre giudicati colpevoli fino a che non siano dimostrati innocenti, ma le prove che vanno loro applicate non sono naturalmente le stesse per tutti i casi. Nel caso di Gandhi le domande che ci si sente spinti a porre sono: fino a che punto Gandhi fu mosso dalla vanità - dalla coscienza di sè come di un uomo modesto, umile, che siede su una stuoia per le preghiere e che scuote imperi attraverso il semplice potere spirituale - e fino a che punto compromise i propri principi entrando in politica, la cui natura è inseparabile dalla coercizione e dall'inganno? Per dare una risposta definitiva si dovrebbero studiare gli atti e gli scritti di Gandhi nei loro infiniti particolari, poiché la sua intera vita fu una sorta di pellegrinaggio, in cui ogni singolo atto è stato significativo. Ma questa autobiografia parziale (The story of my Experiments with Truth), che termina con gli anni '20, risulta troppo evidentemente in suo favore, soprattutto perché ricopre quella che avrebbe chiamato la parte non rigenerata della sua vita e perché ci ricorda che dentro la santità, o quasi-santità, c'era una persona molto abile e astuta che avrebbe potuto avere, se solo lo avesse scelto, un brillante successo come avvocato, come amministratore o perfino come uomo d'affari. Più o meno nel periodo in cui apparve per la prima volta l'autobiografia ricordo di aver letto i suoi primi capitoli sulle pagine mal stampate di alcuni giornali indiani. Fecero su di me una buona impressione, quale non mi faceva in quel periodo lo stesso Gandhi. Le cose che gli si associavano - abiti tessuti in casa, "forze dell'anima" e vegetarianismo - non erano attraenti, e il suo programma medievalista non poteva ovviamente attecchire in un paese lento, affamato e sovrappopolato. Era anche evidente che gli inglesi stavano strumentalizzandolo, o che pensavano di strumentalizzarlo. A rigar di termini, come nazionalista era un nemico, ma dal momento che in ogni crisi avrebbe impiegato sè stesso per prevenire la violenza - il che dal punto di vista inglese significava prevenire ogni azione effettiva - poteva essere ricordato come "nostro uomo". In privato questo era qualche volta cinicamente ammesso. L'atteggiamento degli indiani milionari era simile. Gandhi li invitava a pentirsi e naturalmente loro lo preferivano ai socialisti e ai comunisti che, se fosse stato possibile, gli avrebbero effettivamente portato via tutti soldi. Quanto tali calcoli siano veri nel lungo periodo è dubbio: come dice lo stesso Gandhi "alla fine quelli che ingannano, ingannano solo sè stessi": ma in ogni caso la gentilezza con cui veniva sempre trattato negli incontri diretti era dovuta in parte alla sensazione che era utile. I conservatori inglesi se la presero davvero con lui solo quando, nel 1942, stava in effetti rivolgendo la sua non-violenza contro un diverso conquistatore. Ma anche in quel caso si potrebbe osservare come gli ufficiali inglesi che parlavano di lui con un misto di divertimento e di disapprovazione, erano genuinamente attratti da lui e lo stimavano, in un certo mo6 - George Orwe/1

apertura do. Nessuno ha mai insinuato che fosse corrotto, o ambizioso in un modo volgare, o che facesse una qualsiasi cosa per paura o per malignità. Nel giudicare un uomo come Gandhi viene spontaneo applicare alti standards, così che alcune delle sue virtù sono passate inosservate. Ad esempio si capisce anche dalla autobiografia che il suo naturale coraggio fisico era proprio eccezionale: il modo in cui morì ha costituito una ulteriore illustrazione di ciò, dal momento che un uomo pubblico che legava ogni valore alla propria pelle avrebbe dovuto essere sorvegliato in modo più adeguato. Inoltre sembra essere stato davvero scevro da quel sospetto maniacale che, come giustamente scrive Forster in Passaggioin India, è il vizio assillante degli indiani, così come l'ipocrisia è il vizio degli inglesi. Sebbene non vi sia dubbio che era abbastanza accorto nel percepire la disonestà, sembra che abbia sempre creduto che gli altri stavano agendo in buona fede e che disponevano tutti di una natura migliore attraverso la quale potessero essere avvicinati. E malgrado provenisse da una famiglia del ceto medio povero, malgrado abbia cominciato la vita abbastanza sfortunatamente, perdipiù con un fisico presumibilmente non prestante, non era afflitto da invidia o senso di inferiorità. Pare che il sentimento razzista, quando lo incontrò nella sua peggiore espressione in Sudafrica, lo abbia alquanto meravigliato. Perfino quando stava lottando contro quella che era effettivamente una guerra razziale, non pensò mai alla gente in termini di razza o status. Il governatore di una provincia, un milionario del cotone, un coolie Dravidian mezzo morto di fame, erano tutti egualmente esseri umani, così da poter essere avvicinati nello stesso identico modo. Bisogna notare che perfino nelle peggiori circostanze possibili, come in Sudafrica dove si rese impopolare nella figura del campione della comunità indiana, non mancò di amici europei. Scritta in brevi pezzi per la frammentarietà richiesta dal giornale, l'autobiografia non è un capolavoro letterario, ma fa ancora più impressione per la banalità di molto del suo materiale. È bene ricordare che Gandhi cominciò con le normali ambizioni di un giovane studente indiano e adottò le sue opinioni estremiste solo gradualmente e, in alcuni casi, involontariamente. C'è stato un periodo, è interessante s11perlo, in cui indossò un cappello a cilindro, prese lezioni di danza, studiò francese e latino, sali sulla Torre Eiffel e cercò perfino di imparare il violino - tutto questo con l'idea di assimilare la civiltà europea nel modo più completo possibile. Non era uno di quei santi che si sono distinti per la loro fenomenale pietà fin dall'infanzia, nè una di quelle nature che rinunciano al mondo dopo sensazionali dissolutezze. Fa piena confessione dei misfatti della sua giovinezza, ma in realtà non c'è molto da cqnfessare. Come frontespizio del libro c'è una fotografia di ciò che Gandhi possedeva al momento della sua morte. L'intero equipaggiamento potrebbe essere acquistato per 5 sterline e i peccati di Gandhi, almeno i peccati mortali, farebbero la stessa figura se messi tutti in GeorgeOrwe/1 - 7

apertura mucchio solo. Poche sigarette, pochi bocconi di carne, poche "annas" rubate alla cameriera, due visite ad un bordello (in entrambe le occasioni se ne andò senza combinare nulla), una scorrettezza da nulla scappatagli nei confronti della sua padrona di casa a Plymouth, un'esplosione di collera - questa è più o meno l'intera collezione. Quasi fin dall'infanzia dimostrò poi una profonda onestà, un'attitudine etica piuttosto che religiosa, ma, pressapoco fino ai trent'anni, non ebbe nessun senso di orientamento ben definito. li suo primo ingresso in qualcosa definibile c6me vita pubblica venne fatto dalla scelta del vegeterianismo. Si avvertono continuamente sotto le sue qualità meno comuni i solidi uomini d'affari del ceto medio che furono i suoi antenati. Si sente che anche dopo aver abbandonato la sua ambizione personale deve essere stato un avvocato energico e pieno di risorse e un organizzatore politico dalla testa dura, attento a limitare i costi, un abile manipolatore di comitati e un infaticabile raccoglitore di sottoscrizioni. Il suo carattere era costituito da una straordinaria commistione, ma non vi era quasi nulla che si potesse chiamare cattivo, e credo che perfino i peggiori nemici di Gandhi ammetterebbero che si trattava di un uomo interessante e non comune che ha arricchito il mondo semplicemente vivendoci. Sul fatto che fosse anche un uomo amabile e che i suoi insegnamenti possono avere molto valore per chi non accetta la fede religiosa, non mi sono mai sentito del tutto sicuro. In questi ultimi anni c'è stata la moda di parlare di Gandhi come se fosse non solo simpatizzante del movimento della sinistra occidentale, ma parte integrante di esso. Anarchici e pacifisti in particolare lo hanno rivendicato come uno di loro, limitandosi a rilevare che era contrario al centralismo e alla violenza di stato e ignorando la tendenza ultraterrena, antiumanistica delle sue dottrine. Credo che occorrerebbe ca-· pire che gli insegnamenti di Gandhi non possono essere conciliati con la convinzione che l'Uomo è la misura di tutte le cose e che il nostro compito consiste nel rendere la vita degna di essere vissuta su questa terra, che è la sola terra che conosciamo. Quegli insegnamenti acquistano senso soltanto sulla base della convinzione che Dio esiste e che il mondo degli oggetti solidi è un'illusione da cui bisogna fuggire. Dobbiamo considerare le discipline che Gandhi imponeva a sè stesso e che - benché non fosse in grado di insistere presso ogni suo seguace per far osservare ogni dettaglio - riteneva indispensabili se si voleva servire Dio o l'umanità. Innanzitutto non mangiare carne, e se possibile nessun cibo animale in nessuna forma (Gandhi stesso, per riguardo alla sua salute, dovette fare un compromesso per il latte, ma pare che sentisse ciò come un'apostasia). Niente alcool o tabacco, e nessuna specie di condimenti nemmeno di tipo vegetale, poiché il cibo dovrebbe essere preso non per il gusto in sè, ma solo al fine di preservare la propria forza. In secondo luogo, se possibile, nessun rapporto sessuale. Se rapporti sessuali debbono esserci, allora questo deve avvenire per il solo fine di 8 - George Orwell

apertura procreare e possibilmente a lunghi intervalli. Gandhi stesso a metà dei suoi trent'anni fece il voto del "bramahcharya", che significa non solo castità completa ma l'eliminazione del desiderio sessuale. Sembra che tale condizione sia difficile da conseguire senza una dieta speciale e frequenti digiuni. Uno dei pericoli del bere latte è che tende ad eccitare il desiderio sessuale. E infine - e questo è il punto centrale - ai fini del raggiungimento del bene non devono esserci amicizie intime o amori esclusivi. Le amicizie intime, dice Gandhi, sono pericolose per il fatto che "gli amici sono legati da un vincolo reciproco" e si può essere spinti verso un agire sbagliato a causa della lealtà verso un amico. Ciò è senza dubbio vero. Inoltre se si vuole amare Dio o amare l'umanità come un tutto, non si può accordare la propria preferenza ad una persona singola. Anche questo è vero, e indica il punto in cui l'atteggiamento umanistico e quello religioso cessano di essere riconciliabili. Per un normale essere umano l'amore non significa nulla se non significa amare alcune persone più di altre. L'autobiografia lascia in ombra se Gandhi credesse in un atteggiamento senza riguardi verso la moglie e figli, ma in ogni caso dice con chiarezza che in tre occasioni avrebbe voluto lasciar morir la moglie o un figlio piuttosto che fornirgli il cibo animale prescritto dal medico. È vero che la morte minacciata non si è mai davvero verificata, e anche che Gandhi - con, si capisce, moltissima pressione morale nella direzione opposta - dava sempre al paziente la scelta di restare vivo al prezzo di commettere un peccato: tuttavia, se la decisione fosse stata soltanto sua, avrebbe proibito il cibo animale, qualunque rischio potesse esserci. Deve esserci, egli dice, un qualche limite a quello che vogliamo fare per restare in vita, e il limite è ben al di qua del brodo di gallina. Questo atteggiamento è forse nobile, ma, nel senso che - credo - molti dovrebbero dare alla parola, è inumano. L'essenza dell'essere umano consiste nel fatto che non si raggiunge mai la perfezione, che qualche volta si vogliono commettere dei peccati per amore verso la lealtà, che non si spinge l'ascetismo fino al punto in cui rende impossibili i rapporti di amicizia, e infine che si è preparati ad essere spezzati e sconfitti dalla vita, il che è il prezzo inevitabile del rivolgersi dell'amore di ciascuno verso gli altri. Senza dubbio l'alcool, il tabacco e così via sono cose che un santo deve evitare, ma anche la santità è una cosa che gli esseri umani devono evitare. La mia è un'ovvia ritorsione, ma è necessario essere polemici al riguardo. In questa età piena di guru si assume troppo in fretta che il "non-attaccamento" è non solo meglio di una piena accettazione della vita terrena, ma che l'uomo comune lo rifiuta soltanto perché è troppo difficile: in altre parole che il normale essere umano è un santo mancato. È dubbio se ciò sia vero. Molti spontaneamente non desiderano essere santi ed è probabile che quelli che raggiungono la santità o che vi aspirano non hanno mai sentito molto la tentazione di essere esseri umani. Se si potesse seguirlo fiGeorge Orwe/1 - 9

apertura no alle sue radici psicologiche si troverebbe, credo, che la motivazione principale al "non-attaccamento" è il desiderio di fuggire dalla sofferenza di vivere, e soprattutto dall'amore, che, sessualmente o non sessualmente, costituisce un duro lavoro. Ma non è qui necessario discutere se sia "più alto" l'ideale ultraterreno o quello umanistico. Il punto è che sono incompatibili. Si deve scegliere tra Dio e l'uomo, e tutti i "radicali" e "progressisti", dal liberale più moderato all'anarchico più estremista, hanno in effetti scelto l'Uomo. Comunque, in una certa misura, il pacifismo di Gandhi può essere separato dagli altri suoi insegnamenti. La sua motivazione era religiosa, ma al riguardo egli rivendicò anche che si trattava di una tecnica definita, di un metodo, capace di produrre risultati politici desiderabili. L'atteggiamento di Gandhi non era quello degli occidentali più pacifisti. Il Satyagraha, che all'inizio era stato maturato in Sudafrica, fu una sorta di guerra non-violenta, in grado di sconfiggere il nemico senza fargli male e senza provare nè risvegliare il nemico senza fargli male e senza provare nè risvegliare odio. Esso comporta cose come disobbedienza civile, scioperi, stendersi sui binari, resistere alle cariche della polizia senza correre nè difendersi, e simili. Gandhi era contrario alla resistenza passiva intesa come una versione del Satyagraha; in Gujarati, sembra, la parola significa "fermezza nella verità". Gandhi servì come barelliere dalla parte degli inglesi nella Guerra Boera, e si preparò a fare la stessa cosa nella guerra del '14-'18. Anche dopo che abiurò completamente la violenza fu onesto abbastanza da riconoscere che di solito è necessario schierarsi. Non prese - anzi, poiché tutta la sua vita politica si è incentrata su una lotta per l'indipendenza nazionale - non poteva prendere la sterile e disonesta linea di pretendere che in ogni guerra entrambe le parti sono esattamente la stessa cosa e che fa differenza chi vince. Nè si specializzò, come molti occidentali, nell'evitare domande scomode. In relazione all'ultima guerra, una domanda cui molti pacifisti erano in obbligo di rispondere era: "E a proposito degli ebrei? Sei pronto a vederli sterminati? Se no, come ti proponi di salvarli senza ricorrere ad una guerra?" Devo dire che non ho mai sentito da nessun pacifista occidentale una risposta onesta a questa domanda, benché abbia sentito diverse risposte evasive, del tipo "è un'altra cosa". Ma è capitato che a Gandhi venne rivolta una domanda molto simile nel '38 e che la sua risposta è registrata nel "Gandhi e Stalin" di mr. Louis Fischer. D'accordo con rnr. Fischer il punto di vista di Gandhi era che gli ebrei tedeschi devono commettere un suicidio collettivo che "dovrebbe risvegliare il mondo e il popolo tedesco contro la violenza di Hitler". Dopo la guerra si giustificò così: "Gli ebrei sono comunque stati uccisi e hanno anche potuto morire in modo significativo''. Si ha l'impressione che un atteggiamento simile sconcertò perfino un ammiratore così appassionato come mr. Fischer, ma Gandhi semplicemente fu sincero. Se non ti senti pronto a togliere tu la vita, devi essere pronto a che essa 1O - GeorgeOrwe/1

apertura venga comunque tolta. Quando nel '42 incitò alla resistenza nonviolenta contro un'invasione giapponese, fu pronto ad ammettere che poteva costare alcuni milioni di morti. Nello stesso tempo bisogna pensare che Gandhi dopo tutto nacque nel 1869, non capiva la natura del totalitarismo e vedeva ogni cosa nei termini della sua lotta personale contro il governo inglese. Il punto importante qui non è tanto che gli inglesi lo trattarono con tolleranza, dato che era sempre in grado di crearsi pubblicità. Come si può notare dalla frase prima citata, credeva nel "risveglio del mondo", che è possibile solo se il mondo dà la possibilità di sentire quello che stai facendo. È difficile immaginare come i metodi di Gandhi possono essere applicati in un paese dove gli oppositori al regime spariscono in mezzo alla notte e poi non se ne sa più nulla. Senza una stampa libera e senza la libertà di riunione è impossibile non solo attrarre l'opinione di fuori, ma portare un movimento di massa ad esistere, o anche far conoscere le vostre intenzioni all'avversario. C'è un Gandhi in Russia in questo momento? E se c'è, cosa sta realizzando? Le masse russe potrebbero praticare la disobbedienza civile solo se la stessa idea balenasse a tutti simultaneamente, e anche in tal caso, a giudicare dalla carestia degli ucraini, non farebbe molta differenza. Ma, ammesso che la resistenza nonviolenta possa rappresentare la effettiva lotta di ognuno contro il proprio governo, o contro un potere di occupazione, anche così, come si fa ad inserire ciò nella pratica internazionale? I vari stati di conflitto provati da Gandhi durante l'ultima guerra sembrano mostrare che sentiva la difficoltà di questo. Applicando alla politica estera il pacifismo o cessa di essere pacifismo o diventa acquietamento. Inoltre il principio, messo in pratica da Gandhi per trattare con i singoli individui, che tutti gli esseri umani sono più o meno avvicinabili e che risponderanno tutti ad un gesto generoso, merita di essere seriamente discusso. Non è necessariamente vero, ad esempio, quando si ha a che fare con dei lunatici. Allora la domanda diventa: chi è sano? Hitler era sano? E non è possibile per una cultura intera risultare folle secondo i parametri di un'altra? E, pér quanto si può valutare il sentimento di un'altra nazione, esiste un qualche apparente legame tra un atto generoso e una risposta amichevole? La gratitudine è un fattore nella politica internazionale? Queste e analoghe domande hanno bisogno di discussione, e ne hanno bisogno urgentemente, nei pochi anni che ci sono concessi prima che qualcuno prema il bottone e i razzi comincino a volare. Appare dubbio se la civiltà possa sopravvivere ad un'altra grande guerra, ed è infine opinabile se il modo per evitarlo passa per la non-violenza. Costituisce una virtù di Gandhi il fatto che sarebbe stato pronto a fare le più schiette considerazioni sul tipo di questioni che ho ora sollevato e in verità molte di queste questioni le ha discusse da qualche parte in uno dei suoi innumerevoli articoli. Si avverte che c'erano molte cose che George Orwe/1 - 11

apertura non capiva, ma che non c'era nulla che aveva paura di discutere o di pensare. Non sono mai stato capace di provare molta simpatia per Gandhi, ma non sono sicuro che, come pensatore politico, si sbagliasse nelle questioni principali, nè ritengo che la sua vita sia stata un fallimento. È singolare che, quando venne assassinato, molti dei suoi più ardenti ammiratori esclamarono pieni di dolore che non aveva vissuto abbastanza per vedere la sua vita finire in rovina, dal momento che l'India fu coinvolta in una guerra civile, prevista da sempre come uno dei sottoprodotti del cambio di potere. Dopotutto il suo principale obiettivo, la fine incruenta del ruolo degli inglesi, è stato raggiunto. Come di solito avviene, i fatti rilevanti si incrociano tra loro. Da una parte gli inglesi se ne andarono dall'India senza lottare, un evento che pochissimi osservatori avrebbero potuto prevedere fino a quasi un anno prima che accadesse. Dall'altra ciò venne realizzato da un governo laburista, e certamente un governo conservatore, soprattutto un governo guidato da Churchill, avrebbe agito diversamente. Ma se, dal '45 in poi, è cresciuta in Inghilterra una larga corrente di opinione favorevole all'indipendenza indiana, ciò fu dovuto davvero all'influenza personale di Gandhi? E se, come può avvenire, India e Inghilterra riescono alla fine a stabilire un rapporto decente e amichevole, questo avverrà in parte per il fatto che Gandhi, sostenendo la sua lotta ostinatamente e senza odio, depurò l'aria politica? Che si pensi soltanto a porre domande del genere, dà una misura della sua statura. Si può sentire, come me, una sorta di antipatia sul suo conto (ciò che comunque lui non ha mai rivendicato per sè), si può anche rifiutare la santità come ideale e quindi ritenere che i fini ultimi di Gandhi fossero antiumani e reazionari: ma, ricordato semplicemente come un politico, e confrontato con le altre figure di leaders politici del nostro tempo, che odore di pulito è riuscito a lasciare dietro di sè! (1949. Traduzione di Filippo La Porta) George OrwelJ (1903-1950) è stato romanziere (Giorni birmani, 1934. Fiorirà l'aspidistra, 1936. La strada per Wigan Pier, 1937; i celeberrimi La fattoria degli animali, 1945 e 1984, 1949; ecc.) ed eccezionale saggista (dai volumi pubblicati postumi, ora tutti nei Penguin, Rizzoli ha tratto una discutibile scelta). Grande polemista, è suo il libro forse più belJo sulla guerra di Spagna, Omaggio alla Catalogna (1938). 12 - George Orwell

raccontiitaliani Benedetta Arola La mente libera Attori dietro un telone. Ombre cinesi. Una sola persona in scena, una donna, che lentamente, ed è evidente la fatica, lava il pavimento. Si siede poi un istante a riposare, accendendosi una sigaretta, e in quel momento entrano in scena altre figure sotto una coperta, disposte in modo da sembrare un enorme insetto. La forma che mi richiama alla mente è quella della cimice, come si vede a scuola sui libri di scienze naturali. Torso grosso, tozzo, informe, zampette corte e sottili; mani che escono dalla coperta in lenti movimenti a tenaglia, chiudendosi ed aprendosi come a parlare o ad afferrare l'aria con quelle chele, o antenne, o mandibole protese. Tutti i movimenti del mostro sono lentissimi, quasi danzanti, come fosse molto sicuro di sè e di quel che accadrà. Io invece non sono sicura, fino all'ultimo spero in un qualche rovesciamento di prospettiva (il mostro che si rivela buono o umano, o intelligente). Spero in una fine che non sia quella che conosco già. Invece la pantomima prosegue con i lenti movimenti del mostro verso la donna, che con altrettanta lentezza - ma questa suggerisce piuttosto la disperazione, l'impotenza, la sconfitta già sicura - tenta di tenerlo a bada con lo spazzolone. Inutilmente, ché il mostro prima risucchia il bastone per poi fagocitare la donna stessa. Fine. Molti battimani, e poi qualcuno dietro di me commenta: "Una metafora della Germania oggi." (è una compagnia di attrici tedesche). Davvero? Stupore, senso di inadeguatezza. Senso di colpa, anche: questi pensano al sociale, alla situazione internazionale, io invece... Subito mi ritengo comunque scusata: questo mimo mi appartiene più di quanto appartenga a chiunque altro qui dentro. lo non ho bisogno di cercargli delle interpretazioni, perché l'ho vissuto. Solo nella fantasia, o forse in una sorta di allucinazione, una sorta di vita della mente. ·. Avevo diciannove anni quando cominciai a lavorare per il dottor Marchese, ero al primo anno d'Università. Avevo una breve esperienza come donna delle pulizie, tre mesi a casa di una ricca insopportabile giovane coppia bene, e uno da una farBenedetta Arola - 13

raccontiitaliani macista di mezz'età che viveva con la madre anziana. Ancora più insopportabili dei primi due. Ero a tempo pieno, e stavo perdendo l'anno per quei lavori, e la pace in famiglia. "Fedora, non vedo la necessità" diceva mia madre, esasperata. Neanch'io vedevo la necessità, ma non potevo spiegarle che questo non era un motivo. Alla fine cedetti. Cedetti, quando mi si offrì l'occasione di accettare la proposta di Marchese, di tutte la più stravagante. Si chiamava Roberto Marchese, ed era un commercialista tra i sessanta e i settanta, un bell'uomo alto con i baffi, io propendevo per sessanta-sessantadue, mia madre diceva almeno sessantotto. Mi voleva solo due volte la settimana, per un'ora ciascuna. Fu molto insistente, mi faceva un po' pena, non trovava nessuno, il che era più che ovvio considerato l'orario proposto: dalle sette e mezza alle otto e mezza di mattino. lo abitavo dall'altra parte della città, e la scoprivo svegliarsi tutti i martedì e venerdì. Scoprivo la diversità delle albe nelle diverse stagioni, e ogni giorno aveva una sua alba, come ogni panetteria davanti a cui passavo aveva un suo odore di pane e di dolci. Nei tram semivuoti i passeggeri erano sospinti lungo orbite abitudinarie, uno ad uno, due a due, rompevano con precauzione il fragile guscio dei riti mattutini prima di uscire allo scoperto nel mondo. Conservo un buon ricordo di quelle mattine (questa faccenda andò avanti per tre anni o suppergiù). Rimasi anche perché mi affezionai all'appartamento. Marchese era gentile e corretto, mi diede sempre del lei, non lesinava il quattrino, ed aveva alcuni scaffali colmi di libri d'arte e di viaggi, dalle rilegature lussuose, che erano la mia passione. Mi spicciavo a finire i lavori, per dedicare ogni volta dieci minuti allo spoglio sistematico della sua biblioteca. L'alloggio che dovevo pulire era un mansardato del centro storico (tre stanze più bagno più una bella cucina), dove lui, che abitava fuori città in una grande villa con figli e nuore, veniva a dormire due sere la settimana, il lunedì e il giovedì, per essere già in città la mattina successiva a sbrigare i suoi affari alle Finanze. Sapevo che era padrone di negozi (per i quali compilavo i registri due volte l'anno, con paga a parte, e aggiornavo gli schedari d'archivio), sapevo anche che era mediatore di case, ma di più sui suoi affari non seppi nè mi interessava sapere. L'alloggio, con un balconcino rotondo sui tetti spioventi, era in uno stato a dir poco fatiscente. Per quanto io lo pulissi, vi si accumulava la polvere secca e invincibile delle case poco usate, imperava l'odore di muffa e di chiuso, peggiorato dal fatto che anche in piena estate lui teneva tutte le finestre chiuse, i tendoni tirati, e chiuse anche le persiane, la luce sempre accesa. La casa, un vecchio palazzo signorile di cui questa doveva essere stata l'ala della servitù o quanto meno dei parenti poveri, era in pessimo stato. Infiltrazioni di acqua dal tetto, con larghe macchie gocciolanti sul soffitto, la tappezzeria dei muri scurita ad ogni pioggia appena un po' prolungata. Un giorno addirittura arrivai e tro14 - Benedetta Arola

racconti italiani vai parte del soffitto del bagno sul pavimento. Affascinata da quel disastro, contemplai Marchese sotto i calcinacci, poi lo sostituii con me stessa. Pensai anche che sarebbe stata una buona occasione per rifare il bagno. Far sparire le tracce della catastrofe, clie meritavano di venir conservate nella loro evidenza, era invece meno eccitante, e non sapevo decidermi a cominciare. Misi mano ai calcinacciavvicinandomi poco a poco al luogo dove Marchese giaceva, sepolto sotto la frana più imponente. Quando lui comparve sulla soglia, ancora indossando il suo pigiama rosso vino, l'avevo già quasi disseppellito. Non sospettò mai nulla. I battenti delle porte si chiudevano male o non si chiudevano affatto, e se per caso si chiudevano c'era la possibilità che non si aprissero più, come mi capitò quella volta che stavo pulendo il bagno e rimasi chiusa dentro. Va da sé che ero sola in casa. Un quarto d'ora di reiterati tentativi, con ogni genere di attrezzo che riuscii a trovare, furibonda con me stessa e sudata fradicia per l'agitazione. Infine l'unica possibilità. Ricordavo di aver spalancato la porta-finestra sul balconcino, nel soggiorno. Appena lui usciva, correvo sempre a spalancare tutte le finestre dell'alloggio. In questo gesto non di rado mi vedevo, riparatrice di antenne, percorrere i tetti con passo allenato, alla luce del sole. Altre volte, nelle albe d'inverno, erano i passi notturni e furtivi del gatto quelli che poggiavo silenziosamente sulle tegole pericolanti. Quella mattina fu del tutto diverso. Scavalcai il davanzale del bagno, slittai sulle lose di ardesia spostando le natiche dall'una all'altra. Ero una ragna che avanzava di traverso, puntando attorno a sè le z.ampeprotese. Era inverno, faceva un freddo terribile,ma io che avevo una gonna molto stretta me l'ero tirata su all'inguine per avere i movimenti liberi. Ero soprattutto terrorizzata che qualcuno mi vedesse dal cortile o dagli altri abbaini. Le mie zampe erano congelate dal freddo e screpolate dalla pietra, e il cielo pesava su di me, dello stesso grigio del tetto. Ma quel davvero dava l'idea della totale degradazione dell'appartamento era la massiccia presenza di cadaveri di scarafaggi. Marchese usava, e mi fece usare, anziché i soliti prodotti a spruzzo in commercio, una polvere bianca finissima; pareva cipria o coca o piuttosto polvere di cemento, e si usava così: la spargevo sul pavimento lungo tutto il contorno dei muri il martedì, e il venerdì quando arrivavo trovavo dai dieci ai trenta, il numero variava a seconda delle stagioni, cadavéri di scarafaggi rinsecchiti, adagiati quale sulla schiena quali sulla pancia; li raccattavo con scopa e paletta, li buttavo via. Tornavo il martedì successivo, e raccattavo altri dieci-trenta scarafaggi col sorriso della morte sul volto, tornavo il venerdì, altro raccolto, e così via per un mese. Dopo un mese scopavo e lavavo via dai bordi e gli angoli del pavimento quella odiosa polvere che si rifiutava di scomparire nonostante fosse ormai inefficace, almeno a quanto diceva la confezione, e sempre riaffiorava, come il gesso. Poi ne mettevo di nuova, e ricominciava la Benedetta Arola - 15

raccontiitaliani mattanza. Ovvio che il pavimento non aveva mai l'aspetto troppo pulito, così imbiancato com'era lungo i bordi, e decorato di macchie nerastre che a un esame più ravvicinato si rivelavano poveri estinti. Marchese prendeva tutto ciò con grande filosofia, limitandosi nelle sue comunque deboli e scarse lamentele alla padrona di casa a deplorare le infiltrazioni che ormai minacciavano di distruggere l'appartamento. Era padrone di alloggi anche lui, e non poteva smettere di sentirsi dalla parte dei padroni anche in quell'unico caso in cui lui era inquilino. Pur detestando l'aspetto esteriore degli insetti in genere, io non ho nulla di particolare contro gli scarafaggi. So che la loro razza ha realizzato un eccellente compromesso tra le esigenze comunitarie e quelle individuali, simile a quello dell'uomo sotto certi aspetti, e del tutto assente dall'organizzazione sociale di altri insetti, le detestabili città falansterio delle formiche e delle termiti, o il cieco forsennato lavoro delle api. Sono brutti, questo sì, spiacevoli da guardare, e soprattutto alcune specie di blatte sono davvero troppo veloci per i miei gusti. Non tanto perché mi sfuggono, perché io per conto mio non ho alcuna motivazione a cacciarli, quanto per quella vaga inquietudine che sempre provo quando qualcosa di vivo e molto piccolo si muove correndomi intorno. Per mesi questa indiscriminata mattanza non mi toccò più di tanto, era anzi qualcosa di cui scherzare con gli amici, che tenevo informati del numero di esemplari sterminati due volte la settimana. Un giorno Marchese avanzò un'ipotesi: che gli scarafaggi provenissero non da fantomatici buchi nel pavimento, ma da una lunga e larga crepa, una vera e propria fenditura del soffitto spiovente della cucina. Era abbastanza larga per poterci infilare le dita, e, premendo un po' nella sostanza marcia del muro, forse anche una mano, almeno la mia che è molto piccola. La cosa non mi sorrideva affatto, perché io ci passavo e ripassavo un sacco di volte sotto quella crepa, a schiena curva -li il soffitto era all'altezza delle mie spalle - per spazzare, spolverare, lavare per terra, e l'idea che me ne cadesse uno in testa non mi piaceva affatto. È ben vero che non avevo nulla di personale contro di loro, ma ospitarli tra i capelli mi sembrava una generosità eccessiva. Parliamoci chiaro: nonostante tutta la mia simpatia per loro, credo che faticherei a trattenere una crisi isterica, se me ne trovassi uno vivo nel letto. Cominciai a innervosirmi. Comprammo del Baygon che spruzzai ogni volta nella fessura, infradiciando tutto il muro, e i risultati non si fecero attendere: già la settimana successiva, sul pavimento della cucina - dove ne avevo sempre trovati pochi - stava una decina di creaturine morte, ma di una morte o più recente o in ogni caso diversa da quella dei loro colleghi sottoposti a polvere bianca. Mentre quelli parevano infatti cadaveri centenari, mummie rinsecchite e da lungo svuotate di linfa vitale qualunque essa fosse, gingilli di crocchiante cartone, questi erano morti sì, ma pareva16 - Benedetta Arola

raccontiitaliani no del tutto uguali a com'erano da vivi, tutti belli lustri, sodi e gonfiotti. Continuai a spruzzare il Baygon nella fessura in quantità industriali - senza per questo tralasciare il costante uso della polvere bianca, che continuava a dare i buoni risultati di sempre - differenziando così la produzione in cadaveri secchi e polverosi, e cadaveri sodi e lucenti e dei quali si sarebbe detto che sprizzavano salute da tutti i pori, se non fosse che erano morti. Poi cominciai a trovarne qualcuno che ancora muoveva una zampetta, qualcuno che faticosamente si trascinava, qualcuno che pareva morto ma al suono dei miei passi nella stanza si rianimava e faceva un ultimo disperato tentativo di fuga. Se riuscivo a superare il ridicolo, immotivato timore che mi si arrampicassero su per le gambe, cosa che nessun scarafaggio si sognerebbe di fare, li schiacciavo sotto il piede, con sgradevole crocchiare per terra, di corazza, altrimenti li colpivo col bastone per lavare per terra, lavoro meno pulito e preciso per mia incapacità professionale, perché necessitava di due o tre colpi se non di più. Pensavo ai boia dei tempi andati, la cui abilità consisteva nell'uccidere il giustiziato con un solo, preciso fendente, e mi sentivo insufficiente al mio compito. Cominciai a rendermi conto che io li non facevo la donna delle pulizie, ma la becchina e l'assassina di scarafaggi, e la cosa non mi piaceva per niente. Non avevo nulla contro di loro, l'ho già detto. Inoltre era poco piacevole doverseli ammirare ora anche in movimento in azione, oltre che nel vecchio ordinato rigor mortis. Mi sentivo infastidita. Mi si ridestava la coscienza. Tutto questo prendeva i toni del genocidio, e poiché accadeva sempre in perfetta solitudine perché Marchese verso le otto meno dieci se ne andava, mi sentivo sola, la sola responsabile di tutto ciò, come se non ci fossero stati centinaia di esseri umani in tutto il mondo, e magari anche in quel preciso istante, intenti a fare la stessa cosa. No, questo non mi interessava, non mi veniva neppure in mente, pensavo solo a me stessa e alla mia responsabilità. E così, poco a poco, iniziò quella fantasia. La porta dell'alloggio si apriva ed entrava lo spirito dello scaragaggio, una blatta alta due metri e mezzo e grossa in proporzione, che mi si parava davanti e mi chiedeva conto dello sterminio del suo popolo. Se mai dovesse capitare una cosa del genere, credo che mi si spezzerebbe il cuore per il ribrezzo e la paura appena il segnale inviato dall'occhio arrivasse al cervello. Nella mia fantasia tutto aveva invece una sua precisa durata. Lo spirito dello scarafaggio si stagliava enorme nella cornice della porta, e poi avanzava lentamente verso di me. Camminava tenendosi verticale, è ovvio. Non c'era niente di ferino, nulla di bestiale in lui, e ben gli si adattava la stazione eretta dell'essere razionale. Nella mia fantasia io ero sempre in camera da letto, girata verso la finestra, intenta ad aprirla o chiuderla - operazione che mi divenne quindi sgradevole e che svolgevo ogni volta in fretta e furia, sbatacchiando le persiane con mala grazia - quando la porta dell'alloggio, che immetBenedetta Arola - 17

raccontiitaliani teva nel soggiorno, si apriva, lui mi giungeva di fronte e mi chiedeva conto di quel che avevo fatto. Mi chiedeva se avevo qualcosa contro la sua gente, se qualcuno di loro mi avesse mai fatto del male. C'era una certa nobiltà in lui: era, a tutti gli effetti e io gliene riconoscevo l'autorità, un giudice, e io non potevo difendermi, ero costretta ad ammettere che no, nulla essi mi avevano fatto che giustificasse tanto accanimento. La mia fantasia finiva qui, perché subito mi censuravo ogni seguito. D'altra parte, essa mi visitava soltanto mentre ero sola nell'alloggio di Marchese, e in nessun altro momento della mia vita. Ecco perché quello spettacolo di ombre cinesi mi aveva lasciata senza fiato: il lavoro che faceva la donna, l'estrema lentezza di movimenti, l'uso dello spazzolone come arma, tutto corrispondeva. Un'altra strana coincidenza: le ombre che si muovevano dietro al telone erano sì scure, ma di una tonalità più grigia che non nera. Ebbene, anche se in un'ipotetica realtà il visitatore sarebbe stato nero o rossiccio, a seconda della specie di appartenenza, nella mia fantasia, pur misericordiosamente indistinto, era grigio, una grande informe massa grigia, come fosse coperto d'un velo, Sibilla uscita da antri polverosi. All'inizio del mio lavoro da Marchese non mi ero chiesta il perché di quella pretesa di impormi un orario così assurdo. Oh, certo, era motivato dal desiderio di controllarmi, in fondo non sapeva chi fossi, se ci si potesse fidare di me. Poi, scomparsa quella logica diffidenza iniziale, accampò la scusa che in tal modo poteva vedermi e dirmi se ci fosse qualcosa di particolare da fare. Non c'era mai. Ormai entravo, uscivo, mi aveva dato una copia delle chiavi, mi aveva addirittura offerto di andarci per studiare quando lui non c'era, se avessi voluto, ché lui ne sarebbe stato felice, cosa che io mi guardai bene dal fare. Era lusingato dall'avere come donna delle pulizie un'universitaria - e per di più di una facoltà piuttosto insolita - che sapeva le lingue, che viaggiava, che era una brava ragazza senza grilli per la testa, che non fumava, non si truccava, viveva con papà e mamma. Mi seguiva come un cane, parlandomi in continuazione, felice di avere qualcuno che fosse in grado di capirlo. Alcune cose che diceva erano anche interessanti, certo. I racconti dei suoi viaggi, per esempio, lunghi viaggi motivati sempre da desideri bizzarri. In India ci andava per rivedere il suo vecchio campo di concentramento inglese vicino a Bombay, a New York per sentir parlare il Papa alle Nazioni Unite (ed era un accanito mangiapreti, come molti della sua generazione e del suo ceto). Il più delle volte però era abbastanza noioso sentirlo parlare dietro la schiena, mentre ero china a lavare il water. Poco a poco mi resi conto che il mio vero lavoro, quello per cui mi pagava, non erano tanto le pulizie, nè gli assassini di scarafaggi. Il mio vero lavoro consisteva nel fargli da geisha personale e privata. Una ragazza molto giovane, istruita, gentile, beneducata, riservata, con cui parlare appena alzato, con 18 - Benedetta Arola

raccontiitaliani cui iniziare la giornata. Cosa può volere di meglio un distinto signore di quasi settant'anni? Il fatto che questa geisha fosse tale in tutto tranne che nel letto aumentava ai suoi occhi il mio valore: una ragazza seria, perdio! Marchese era un padrone anche e soprattutto nella mentalità, genere vecchio gentiluomo liberale un po' cinico, e mi illustrava la sua visione del mondo in un grandioso affresco a puntate bisettimanali. Io non gli rispondevo mai. Del resto lui non era interessato alle mie opinioni quanto lo era alle sue; le poche volte che me le chiedeva mi limitavo a dirgli che non ero d'accordo senza spiegargliene il motivo. Si riteneva soddisfatto e procedeva oltre. Un mattino trovai una rivista per soli uomini nel letto che dovevo rifare. Lui era già uscito. Fino alla visita successiva dibattei dentro di me se dovessi chiedergli di non farmele più trovare, portandosele via quando usciva, o assumere un atteggiamento più sfumato, oppure ancora far sparire la rivista, distruggerla, perché lui capisse l'antifona. Gli equilibri nel rapporto di forza tra di noi erano arrivati a un punto tale che sapevo non me ne avrebbe mai chiesto la sorte. Per pigrizia non feci nulla di tutto questo, e qualche settimana dopo ne trovai un'altra. Erano riviste inglesi - Marchese faceva frequenti viaggi a Londra - piuttosto diverse da quelle italiane che ho avuto occasione di vedere. Bella carta patinata, buona grafica, foto tecnicamente perfette di ragazze nude ma sole, ogni foto una ragazza e null'altro, piume di struzzo e stanze liberty o collane di turchesi su strepitose abbronzature in spiagge greche, ma nient'altro. Nè uomini nè animali nè aggeggi strani nè due ragazze nella stessa foto. Le ragazze tutte molto belle e levigate, pagate abbastanza anche così senza che dovessero posare per servizi più hard. Chi erano quelle ragazze? Cosa facevano nella vita di tutti i giorni? Quanto le pagavano? Avrei potuto incontrarle in un supermarket a Londra? E mentre li scarafaggi da innocua mattanza senza pensiero divenivano per me un irrisolto problema morale e un'allucinazione di giustizia, l'urgenza della scelta che mi aveva assalita dopo il rinvenimento della prima rivista si rilassò fino a che quelle riviste divennero innocue e prive di senso. A volte le leggevo, come leggevo tutto ciò che di leggibile c'era in casa, facendo grandi progressi sulla nomenclatura umana vernacolare inglese. Delle mie mattine di lavoro, un'altra emerge dalla memoria, la mattina che, proprio come accade nei film, la donna delle pulizie arriva nell'alloggio e trova il cadavere. Era autunno o primavera? Non ricordo. Giornate ancora (o già) molto fredde, comunque. Buio. Salgo le scale. Avevo le chiavi ma mi servivano solo per chiudere quando uscivo, perché Marchese si alzava alle sei, apriva la porta e la lasciava accostata. Stupore quindi nel trovarla chiusa. Quando non aveva motivo o occasione di venire in città, Benedetta Arola - 19

raccontiitaliani molto di rado, nù telefonava per avvisarnù e dirmi di andare lo stesso, che nù avrebbe pagata la volta successiva. (Mi telefonava.spesso a casa, per comunicazioni di scarsa o nulla importanza, sempre prima delle sette di mattina, nonostante gli avessi più volte detto di non farlo perché svegliava non solo me ma anche i nùei genitori). Aprii con la nùa chiave. L'alloggio era buio, tranne una fioca luce proveniente dalla camera da letto, dall'abat-jour sul comodino. E proprio dalla camera da letto una voce debolissima, come d'oltretomba, cercava di farsi udire. "Signorina, nù chiami un'ambulanza". La frase in realtà era in piemontese. Marchese parlava quasi esclusivamente in dialetto, e nù chiamava sempre "Tòtina", mai signorina, anche quando parlava in italiano. Mi prese un colpo. In senso metaforico. Lui invece il colpo l'aveva avuto sul serio, la sera prima verso mezzanotte, ed era rimasto tutta la notte lì, senza neppure la forza di scendere a chiedere aiuto alla famiglia del piano di sotto. Marchese non aveva il telefono. La corsa affannosa al bar di sotto, cercare il numero sulla guida, "Che età ha?", "Ma non saprei, più vicino ai settanta che ai sessanta, credo", "Lei chi è?", "Sono la donne delle pulizie", tornar su a traquillizzarlo, "Li ho chiamati, nù hanno detto che in dieci minuti saranno qui", a chiedere se potevo far qualcosa per lui, poi di nuovo giù ad attendere l'autoambulanza per indicare la strada ai barellieri (il palazzo aveva tre scale). La vecchia portinaia siciliana "Marnmamia marnmamia", e io con quella portinaia onnipresente già avevo avuto dei problenù, nù guardava in un modo. Tutta vestita di nero, anche le calze, sempre con un fazzoletto nero sui capelli anche in piena estate, era sempre lì quando uscivo e mai quando entravo, e nessuno nù toglieva dalla testa che pensasse che ero li dalla sera precedente, che ero l'amante di Marchese. E questo pensiero nù seccava. E l'infartuato? Se la cavò, con un lungo soggiorno all'ospedale dove andai a portargli della roba che era rimasta nell'alloggio e di cui aveva bisogno. Risultò poi che aveva già avuto un infarto, o forse due, non ricordo bene. Mi venne alla mente che respirava con qualche affanno, e che teneva delle gocce di Coramina-Efedrina sul comodino. Decise che non sarebbe più venuto a dornùre in città fino a che la SIP non gli avesse messo il telefono. Io continuai ad andare a pulire l'alloggio, Io vedevo qualche istante prima di uscire, ma non sempre. Adesso pulisco le palestre di una scuola. Sono dipendente pubblica, è un lavoro fisso e sicuro, ma lo stipendio è davvero nùsero. In compenso ho la mezza giornata libera, e anche durante l'orario di lavoro ho molto tempo per leggere, scrivere, studiare. Questo perché è un lavoro strutturato male, con moltissimi tempi morti: quando le palestre e gli spogliatoi sono impegnati non li si può certo pulire, e non li impegnano solo gli studenti al mattino, ma anche società sportive esterne, di pomeriggio e di sera. Per cui ai tempi morti di obbligata inattività fanno da contraltare veloci sfuriate di lavoro in lotta contro il 20 - Benedetta Arola

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