ugualedappertutto, dietro le diverse apparenze, l'istanza di felicità che anima il "minimo utopico", credo che su questo può e anzi deve avvenire una comunicazione, un reciproco aiutarsi. Con la consapevolezza, forse ovvia ma che qui è utile ripetere, che tutti abbiamo un po' da imparare e un po' da insegnare, che insomma è un problema di tutti la ricerca di un rapporto vitale con il proprio passato. In un certo senso infatti siamo anche noi occidentali cattivi imitatori, di noi stessi, di ciò che siamo stati e di ciò che abbiamo detto. Neanche noi, come Enzensberger, siamo sicuri che esista un pensiero capace di salvarci. Ma dall'insieme delle sue considerazioni (e delle sue insofferenze) sembra che dobbiamo salvarci più dai goffi imitatori, pericolosamente immigrati frattanto nelle nostre metropoli, che insieme a loro. Come luogo di osservazione del mondo Enzensberger ha scelto per sè una posizione invidiabile, una zona riparata, situata leggermente in alto, in cui convergono l'aria tersa e frizzante del libero pensiero, i brividi sottili dell'intelligenza anticonformista, il piglio felicemente dispiegato della polemica arguta. Chi se la sentirebbe di costringerlo ad abitare luoghi meno ariosi, tetri o asfissianti? E in nome di che cosa? Di un obbligo morale alla lotta e alla rinuncia? Un illustre connazionale di Enzensberger ci ha insegnato che se non si aspira ad assumere la posizione migliore già oggi, se non si aspira già oggi al godimento, perché mai si dovrebbe combattere? (9) Il fatto è che da quell'osservatorio privilegiato succede, dopo un po', che alcune cose si vedano e altre no. Si perde progressivamente il senso delle distanze e delle proporzioni. Il che -à. grave, soprattutto per chi intenda riflettere sul costume e sull'etica collettiva. E così la gioia, peraltro sincera, per essersi liberato dai dogmi ammuffiti e dalle autocensure diventa incomparabilmente piu grande della natura tragica dei processi che vengono descritti. discussione Ha scritto Horkheimer a proposito di Montaigne: "L'io scettico eleva a propria essenza (... ) il dubbio, e con ciò crede di essere giunto a se stesso. Ma gli resta da fare l'esperienza che esso può essere anche paura e dolore, approvazione e indignazione" (10). Sono convinto che l'esperienza cui qui si fa cenno Enzensberger l'abbia compiuta interamente. E penso anche che sia possibile percepirne l'eco, almeno in lontananza, nei migliori di questi saggi. Ma la scelta, solo in parte comprensibile, di omettere questa esperienza, di nasconderla nelle pieghe di una scrittura "capricciosa", ha una conseguenza di cui vorrei che lo scrittore tedesco tenesse conto: finisce per allontanarlo non solo dalla "solidarietà con l'umanità" e dalla "fede nelle possibilità concrete dell'uomo" (come osservava Horkheimer a proposito della parabola storica del pensiero scettico) ma anche dalla verità, propria e degli altri. L'utopia tecnocratica del controllo totale fallirà, crede così di rassicurarsi Enzensberger, per il semplice fatto che tutte le utopie falliscono (11). Ma noi non ci sentiamo affatto rassicurati. Forse l'umanità riuscirà a schivare inconsapevolmente l'Utopia poliziesca della Repressione, ma sembra avviata a rapidi passi verso sue buone approssimazioni o verso alternative non meno inquietanti. Lo scrittore tedesco ci invita poi senza mezzi termini a sbarazzarci di sentimenti quali la speranza e la disperazione, perché "fuori luogo", e raccomanda invece un "umorismo privo del benché minimo riguardo" verso ogni progetto repressivo. Qualcuno potrebbe obiettare che, di fronte all'immagine delineata in queste stesse pagine di un'apocalisse che "terribile, avanza lentamente", non si vede a quali residue energie vitali dovrebbe attingere il nostro senso dell'humour. Ma in verità l'esperienza storica sembra dare ragione a Leopardi quando annotava che "quando meno sperano (... ) tanto maggiormente sogliono i particolari uomini essere inclinati al riso" (12). Filippo La Porta - 95
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