discussione oggi dispongono tutte le più raffinate macchine da scrivere. Il critico può rinfacciare all'autore ogni aggettivo ridondante e ogni virgola fuori posto, ma l'autore non ha la possibilità di sindacare il critico nell'esercizio delle sue funzioni. Rettifiche che riguardano il proprio lavoro - sia pure nella forma di lettere al direttore - non solo sono rarissime nelle pagine culturali, ma, a ben vedere sono per lo più poco apprezzate, perché intralciano il lavoro: "dove andremo a finire se tutti ... " e larisposta del direttore responsabile si perde in un borbottio incomprensibile. Il caso di Poe che citò in giudizio un critico a causa delle sue volgari calunnie e vinse il processo dopo avervi impegnato tutti i suoi beni, è tanto esemplare quanto il destino del suo conterraneo Melville, il cui Moby Dick fu sommerso dallo stesso tipo di critiche negative, e fu riscoperto solo dopo la morte del suo autore. Del resto noi non sappiamo se i posteri siano stati sempre in grado di correggere tutti gli errori dei critici e dobbiamo solo accontentarci di supporlo. Per l'autore interessato una riabilitazione post mortem ha comunque un valore molto relativo. A questa discrepanza di base nel rapporto autori-critici, che se non giustifica l'ira dei primi contro i secondi tuttavia la spiega, se ne aggiunge un'altra che appare così ovvia, da non essere quasi mai presa in considerazione: mi riferisco qui al diverso impegno di lavoro. Un critico investe nella recensione di un romanzo, di un volume di narrativa o di poesia, al massimo un paio di giorni o di settimane, mentre l'autore ha lavorato alla loro esecuzione per anni. E ancora, un autore in genere si occupa di un solo libro su cui concentra a lungo tutta la sua attenzione, il critico invece si confronta con montagne di pubblicazioni nuove, che anche con la migliore buona volontà padroneggia solo in minima parte. L'offerta continua e sovrabbondante genera una sazietà e un fastidio che il critico, coscientemente o no, fa pesare sull'autore, osservando rassegnato: 86 - Hans Christoph Buch "Ancora un altro Handke! ", "Ma questa Wohmann non finirà mai di scrivere!" ecc. Quindi, statisticamente parlando, la possibilità che tra migliaia di libri il critico metta le mani proprio su quelli la cui fisionomia estetico-politica gli permetterebbe di esprimere un giudizio competente è minima. Il risultato grottesco è che i critici esprimono il loro parere su libri di cui per propria ammissione non sanno che fare, perché troppo al di fuori del loro orizzonte intellettuale. Come se un arbitro di calcio volesse dirigere un'orchestra sinfonica. II Eccomi dunque ai criteri della critica. Quanto essi siano nell'insieme arbitrari e capricciosi, appare già a un primo veloce esame degli indizi su cui i critici fondano il loro giudizio: lo stesso brano, a seconda del gusto del recensore, può essere all'origine del successo o del fallimento letterario di un romanzo. Nulla mi vieta, anzi sono nel mio pieno diritto, se giudico una frase del tipo: "il sole brillava, il cielo era azzurro" via via come originale espressione della creatività del suo autore o come immagine della più assoluta banalità o addirittura come raffinato mascheramento della stessa banalità, perché comunque, è insensato giudicare espressioni o frasi isolate dal loro contesto globale. Da Kant in poi è noto che ogni giudizio è solo un giudizio di gusto sul quale, come è altrettanto noto, è inutile disputare; una disputatio è invece possibile sui criteri, sulle opinini e sulle posizioni che sottendono tali giudizi estetici. La prova è che già dagli anni '50 Peter Schneider riprendeva la vecchia proposta di rendere pubblici i criteri della critica osservando: "Bisognerebbe chiedersi se sia possibile accordare fiducia a una prassi della formazione di un giudizio, sulle cui norme non viene fornita nessuna corretta informazione teorica. È inevitabile che il critico, nell'atto stesso in cui formula un giudizio, assuma anche una posizione pre-
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