discussione letto in chiave d'allegoria. Pontiggia la suggerisce con estrema discrezione, rispettoso dell'autonoma volontà di ogni lettore (e attento a stimolare comunque divertimento e curiosità). Credo però venga abbastanza naturale cogliere nella figura di Losi caratteri tipici di un intero ceto, di una larga borghesia italiana, "pronta a tutto e buona a nulla", trasformista e perciò ''eterna'', come la nostra classe dirigente dal dopoguerra ad oggi. Di converso, nell'ostinata velleità dei cacciatori di Losi, nella loro coerenza, si possono ritrovare pregi e debolezze degli oppositori, dell'altra Italia, più onesta e più ingenua. Ponteggia non ci riserva la sgradevole sorpresa di irriderla e di simpatizzare cinicamente per il vincitore Losi. Anche questo non era scontato, in un panorama letterario, politico e di costume che ci sta abituando a considerare il cinismo una qualità indispensabile. Per il resto,// raggio d'ombra si arricchisce di quelli che Maurizio Cucchi ha chiamato "segnali minimi di grande efficacia", deposti qua e là, dove la vita parla per tocchi imprevisti e leggeri che rivelano il mutare o l'irrigidirsi di un destino, di un'esperienza. Sono i momenti in cui Pontiggia, in poche righe, condensa vicende o riflessioni più vaste (su Losi: "Con certe persone dai il meglio di te stesso. Con lui davi il peggio". Sul medico e sua moglie: "Tutto aveva congiurato a farne una coppia, tranne l'amore, che mancava". E un pensiero tratto dalla sapienza istintiva di quella borghesia trasformista: ''Hai detto quello che in Italia è essenziale. Contare su qualcuno"). Sono, anche i momenti in cui a volte si desidererebbe che la narrazione azzardasse di più, di scavare più a fondo, di perdersi e ricomporsi nelle trame che la vita conserva e che oggi più di ieri, se sono in mille modi rese anonime, standardizzate, impoverite di alternative, chiedono tuttavia di ricono232 - Gianfranco,Bettin scersi in qualche percorso reso visibile, leggibile. Sta qui la radice di un bisogno di narrazione, di storie da raccontare e sentir raccontare, che permane e che, nell'impasse prolungato della letteratura, ha spostato la sua attenzione su altre forme di comunicazione Oa tv, soprattutto). La chance sempre attuale della letteratura è contenuta in questo diffuso bisogno. Certo, per rispondervi positivamente e per contribuire a formarlo, a raffinarlo, sono necessari il talento e la disponibilità degli autori, vecchi o nuovi che siano. Non sono molti, oggi, e non pochi fra essi, fatto salvo il talento, appaiono disporsi sulla frontiera della fine della narrazione. Quel "parlarono a lungo, inutilmente, dicevano ... " da cui Pontiggia è ripartito dopo L'arte della fuga, sembra nausearli e lo spazio vuoto dopo l'ultima parola, evocante il vano chiacchierio figlio dell'esperienza possibile oggi, sembra colmabile solo da esercizi di pura tecnica o da evasioni teleguidate. Molto spesso questo commiato dalla narrazione avviene in modo compiaciuto e perfino rozzo; altre volte, più rare, non impedisce una qualità estrema della scrittura e un residuo amore per la letteratura. Italo Calvino, ad esempio, con una tecnica raffinata e, mi pare, non senza nostalgia, ha dato conto di questo "commiato" in Se una notte d'inverno un viaggiatore. Con grande abilità, con una tecnica che certo non ignora la lezione di Calvino, Pontiggia si è mosso sul versante opposto ritrovando un filone di racconto, traendo dall'ombra un raggio visibile oggi. Nel Raggio d'ombra, Pontiggia dice di un personaggio: "sentiva che la parola 'qualcosa' era più vicina alla verità di 'tutto' o 'niente'.". Nel panorama attuale della nostra letteratura i libri di Pontiggia sono appunto "qualcosa" - un prodotto serio e accurato, il frutto di un talento e di una passione autentici.
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