Linea d'ombra - anno I - n. 2 - estate 1983

narrativae memoria Ritrovo un mio appunto (novembre 1956) sulla solitaria tavola di Saba. L'ho visto mangiare in cucina, nella sua cucina, e credo, sono sicura, che nessuno al mondo può sospettare che il nostro poeta, il poeta del Canzoniere, mangi quelle cose, in quell'ambiente, in quella compagnia. Mangia seduto sull'orlo della seggiola, in vestaglia e pantofole, preparato soltanto un lato della tavola, solo, pallido e disperato: un fiasco di vino davanti e il piatto quasi vuoto. Nel piatto sta la sua invenzione, quasi l'unica cosa che mangi: burro, salsa di acciughe e sugo di limone. "È importante", spiega a chi lo guarda mangiare, "che il burro e la salsa non siano amalgamati insieme e che ci sia molto limone". Mangia quella strana salsa così piccante quasi senza pane, rapidamente, e tutto in lui esprime, con quella forza che gli viene dalla sua natura lirica, lirica sempre e in ogni momento, l'inappetenza. È solo perché chi egli ama è lontana e ammalata e chi gli è vicino, due donne, sono esseri remoti che nulla possono dargli. L'una è una vecchia domestica, una contadina che intuisce di servire un essere eccezionale, che a suo modo ama e teme, ma sbagliando sempre, così che con ogni suo gesto o parola o offerta ferisce la sensibilità di Umberto Saba. L'altra è una coinquilina, rimasta lì dalla guerra, sana e popolare, e che non ha neanche tanta fantasia da meravigliarsi, nè tanta gentilezza da cercare di essere d'aiuto. Così, mentre Saba mangia, si muove intorno a lui, canta e sfaccenda e lava i piatti. Saba, è evidente, non mangia per vivere, non mangia perché ha fame, non mangia per ubbidire a un rito comune a tutti, mangia solo per tentare di dimenticarsi cinque minuti: per fare qualche cosa. lo lo guardo ed ho il cuore così stretto che desidero solo fuggire lontana: sento che nessuna parola lo raggiunge, che non posso riportarlo in camera da pranzo. Eppure penso, mentre lo guardo e lo vedo più che vecchio, antico, con lo sguardo azzurro e acuto, le mani sempre belle e la voce piena di risonanze, questa è la stessa cucina dove tanto è stato cucinato, tanto e con tanto amore, la stessa dove ogni giorno enormi pezzi di carne trovavano varie forme di cottura proprio per essere rapidamente divorati da Saba. Perché Saba è stato un mangiatore e un carnivoro che quasi solo di carne si nutriva e delle cose affini e complementari della carne: formaggi piccanti e le verdi olive greche, piccole e grinzose, che si vendevano in barili: amare, mai salate. Mangiava subito, appena rientrato in casa, prima di parlare, senza prender fiato, senza riposare un momento. Chi mangiava con lui era al primo cucchiaio di minestra mentre Saba aveva finito ed accendeva il sigaro toscano. Aveva finito, in quel brevissimo spazio di tempo, le più che generose porzioni che la Lina, sua moglie, gli metteva davanti. Era un giorno il bollito, un altro le famose "fugazzette" (della carne di manzo tritata fine, manipolata a forma di polpetta, lasciata macerare nell'olio per molte ore e poi cucinata con uno spicchio 178 - Linuccia Saba

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