Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

narrativae diario 10di dirilto? Si, è possibile. La paura è veloce. Lo dico e i vicini sono della mia stessa opinione. Chissà che cosa ci porta il domani. L'alone di luce della città è davanti a noi, in fondo a Viale Certosa e a Corso Sempione, oltre il Castello. Ci salutiamo, ci stringiamo le sciarpe al collo, ci separiamo, andiamo in cerca delle nostre auto sul piazzale. 15 gennaio 1970 A trent'anni di distanza comprendo che cosa fossi andato tentando di decifrare nell'Europa della guerra. Allora il tema della contraddizione - che si chiamava "esistenziale" - fra il singolo e la storia si fondava su prove quotidiane, ognuno di noi avvertiva che la precarietà non era "natura" ma "storia", e il "perire per mano d'uomo" era una esperienza da affrontare prima di sera. In mezzo all'Europa, tra le ceneri delle città. Non potevamo comprendere però quel che appare evidente oggi e cioè che le domande sulla condizione e il destino della società occidentale borghese, poste com'erano in forma di domande sul!' "uomo" (i rovinosi saggi di Camus) avrebbero finito col ricevere le due risposte, simmetriche e inutilmente distruttive, dello stalinismo e dello "spiritualismo" anticomunista. E i giovani odierni demistificatori delle ideologie e degli ideologi della "sinistra" di allora non vogliono sapere che ogni verità si avanza mascherata e che essi stessi non possono sapere quel che realmente dicono, quale signore realmente servono. Era necessaria la chiusura di tutto quel ciclo e delle sue "figure" ideologiche perché si tornasse a vedere riapparire la tensione e la con1raddizione all'interno di quello che per tradizione abbiamo chiamato il campo della "sinistra". 17 gennaio 1970 Quanto più è lontana la meta cui intende l'azione collettiva che vuole tramutare la società e quindi quanto più oltrepassa i termini visibili delle singole esistenze, tanto più tutto quel che appare come scacco, arresto, sconfitta somiglia alla fine individuale e la ricorda. Ci è stato insegnato che, a partire dalla coscienza di quella fine - o della mortalità e più in genere dalla distruttività o istin10di morte - si diramano tutti i "vissuti" di precarietà, dejezione, insufficienza, alienazione. Una esperienza "naturale" assume insomma caratteri storici e, perché storici, di classe. Però quel suo carattere di storicità e di classe è continuamente sommerso e riassorbito dalla "natura", tende a farsi inevitabilità, irrimediabile e irredimibile. La lotta del singolo contro quella inevitabilità è la ragione della forma tragica. Ma nell'ordine del quotidiano, della normalità e della rassegnazione, quando ogni progetto è di corta portata e la solidarietà è ristretta, la condizione tragica è vissuta dallo sfruttato, dall'oppresso e dall'offeso come semplice retaggio umano, come normalità, appunto. La tragicità gli viene sottratta. La rivoluzione marxista ereditava da quella illuminsita la persuasione che gli sfruttati e gli oppressi non potessero veramente emanciparsi senza aver prima distrutta quella illusoria "naturalità". Ma le classi oppresse non hanno alcuna voglia di essere eroiche o tragiche. Le masse che modificano realmente, oggettivamente, il corso del mondo col loro comportamento, riproducono quindi e in1rattengono una interpretazione del mondo necessariamente arcaica, guardano più che ad un paradiso futuro, ad un mai esistito paradiso perduto. Basta questo banale richiamo ad un punto chiave del marxismo per capire che si nasconde qui una contraddizione spietata: non sanno quello che fanno e quel che fan64 - fiw1co Fonini

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