Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

narrativae diario del morto. Eravamo ai due lati di una trincea. Qui scavano con una benna, giudicando a occhio quante bare dovranno entrare in giornata. Quando siamo arrivati, i becchini stavano calando la bara di Pinelli. Accanto alla sua ho vista un'altra cassa. Abbiamo alzato i pugni a salutarlo. Un frate ha cominciato a dire in latino una preghiera. Pregava per quell'altro e i parenti dello sconosciuto si allontanavano da quella gente strana che era venuta a sovrapporsi alla loro pena. Qualcuno, con tono brusco e professionale, mise in mano a una vecchia un foglio, scandendo il numero di riferimento della bara e del campo.· Intanto sopravveniva altra gente. Guardavano verso la cassa, in fondo alla trincea. Dall'altra parte del fossato ho rivisto la testa candida di Giovanni. Scivolando sulla fanghiglia, facendomi largo tra i fotografi, anch'io sono arrivato sul ciglio della fossa. Le bandiere nere si abbassavano. Un giovane con una corta barba ha detto con voce tranquilla alcune parole. "Pinelli è stato assassinato. Addio, Pino. Non dimenticheremo né te né quelli che ti hanno ucciso". È stato un lungo momento, serio e vero. Mi sono rammentato di quando, cinque anni fa, abbiamo messo in terra Raniero Panzieri, a Torino. La voceroca ha attaccato "Addio, Lugano bella". Erano in molti a cantare ma a bassa vO\:ee il ritmo era lento, davvero una marcia funebre. Che quelle parole potessero essere ancora attuali, faceva impressione e rabbia. Ripetizione, tradizione. Quel canto pareva somigliare a quelli di sconosciute sette, perdute per entro le capitali moderne. M'è parso, per un attimo, di essere in una di quelle città degli Stati Uniti dove si sopravvivono le memorie anarchiche del secolo scorso o dell'età di Sacco e Vanzetti. L'orgoglio della miseria e, più ancora, l'orgoglio della sconfitta. Era davvero così? Guardavo i giovani che, non senza incertezza, avevano intonato una "Internazionale" stonata; per un tratto, anch'io li ho accompagnati. Vent'anni fa i vecchi carrarini che dopo il funerale di uno dei loro venivano a una mangiata in riva al Magra e poi cantavano le canzoni del Gori, non erano più che una curiosità. Oggi non è più così, i libertari hanno ritrovato, dopo il 1956, non solo i propri mort.i ma anche le ragioni. È quel che accade alle veritù ..:hediventano vittoriose solo dopo la morte, dissolvendosi. Nello squallore di questa fedeltà sento il medesimo odore di cripta che è di certe cappelle protestanti. Eppure quanto di quelle, anche nel loro gelo, non è passato nel cattolicesimo dei nostri giorni. L'anarchia ha fecondato così, senza che ne avvedessimo, una buona parte degli operai e degli studenti; e Bakunin si è presa la sua rivincita su Marx. Viviamo nella paura di una identità irrigidita, di una fedeltà senza virtù. La fedeltà che retrocede a superstizione: questa può essere una delle facce del decadentismo. Le superstizioni sanno addobbare magicamente il dolore e la sconfitta. li gelo del cimitero, la pietà dei canti stonati, delle bandiere sulla fossa ingiusta, la sera di noi gravati dal senso di un capitolo di storia che si chiude, di un tristo futuro di persecuzione e di silenzi: tutto questo è stupenda scena della fedeltà, armonia della ripetizione; ma è anche inganno e conforto. Veniamo via che è buio fitto. Vittorio Sereni, Marco Forti e Giovanni Raboni camminano con me sulla ghiaia del vialetto. Ci sorpassano coppie di giovani, nelle loro vesti militaresche, il braccio di lui intorno alla spalla di lei, carichi - così immagino - di rancore e amore. Che cosa sarà di loro? Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa, l'orrendo coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è davvero finita una età, cominciata ai primi del decennio. E possibile il silenzio degli uomini dell'opinione, i difensori dello staFranco Fortini - 63

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