Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

narrativae diario 14 dicembre 1969 Mi sono svegliato tardi, è domenica. Mal di capo dopo un mal sonno per aver discusso a lungo con irritazione di bile ed effusione nevrotica, sotto il peso di due giornate dure, di notizie e tensioni. Sul tavolo della cucina, in una finestra bassa della prima pagina del Giorno (il giornale è piegato ma di ceno tutta la prima pagina sarà piena della strage dell'altro ieri) si annunzia la morte di Umberto Segre. Senso di una strana giustizia: Segre muore adempiendo alla perfezione la propria volontaria scelta di un destino imperfetto. Non riesco a togliermi dalla testa che nella sua intelligenza, dove aveva identificato moralità e lucidità, egli aveva saputo bene che aspirare a una qualsiasi compiutezza nel nostro mondo è quasi una bestemmia. Non sono in pochi a saperlo oggi; ma pochi quelli della generazione di Segre e soprattutto della sua formazione intellettuale. Tutte le sue coordinate culturali e politiche parevano porlo entro una cifra, familiare sino alla noia, nella linea che da Spinoza porta agli Illuministi e, in Italia, alla Torino gobettiana: negli anni Quaranta, il Partito d'Azione. Su quella linea, se non il filosofo che Umberto Segre era, si era posto come giornalista politico. Ma Segre aveva ricevuta una grazia particolare: di non essere dalla parte del successo. Questa domenica è stata piuttosto fredda. Di un grigio gradevole, abbastanza trasparente, almeno fin verso le tre del pomeriggio quando il cielo si è fatto fosco, la nebbia è diventata sporca. Un tassì mi ha lasciato davanti all'ingresso del Policlinico, in via Francesco Sforza. Domando dov'è. Mi si dice di attraversare la strada e di andare al numero trentotto. Dall'altra parte della via c'è l'Università, la parte più antica, con le finestre sforzesche in cotto. Tra macerie e alberucoli, vicino a una statua lacrimante, vedo una porticina. Mi si dice che hanno già chiuso la cassa. Sulla ghiaia ci sono due o tre auto, con alcuni parenti del Segre. Mettono la cassa nel furgone, tolgono qualche corona. I conoscenti e gli amici non saranno neanche dieci. Dimenticavo di dire che poco prima avevo incontrato, la faccia stravolta dalla vecchiaia, Mario Bonfantini; e di averlo salutato con imbarazzo. Conoscevo pochissimo Segre. La sua intelligenza, anche dopo poche parole, faceva impressione. Non capisco perché ci sia così poca gente al suo funerale. Tutt'intorno c'è l'aria soda, immobile, di una Milano deserta nell'ora della digestione domenicale, appartamenti ben scaldati dietro i doppi vetri. 20 dicembre 1969 L'altra mattina ho attraversato il centro mentre da uffici e fabbriche la gente convergeva in piazza del Duomo per i funerali degli assassinati. Mi è parso di non aver mai veduto una scena simile. Tra via Manzoni e Santa Margherita i portoni versavano gruppi fitti di impiegati che uscivano e si dirigevano verso la Galleria e il Duomo. Pareva si stesse muovendo tutta la città. I negozi chiudevano, le banche abbassavano le saracinesche. Arrivavano a migliaia gli operai della zona Nord, infagottati nelle tute che celavano i panni di casa, aggrondati in viso. Il freddo era molto duro, umido. Non ho voluto restare sulla piazza. Quando ho raggiunto Largo Cairoli fra la folla che si accalcava sui marciapiedi, ho visto passare tre o quattro furgoni funebri, diretti al nodo delle autostrade. Oggi a scuola ho tenuto la mia terza lezione sul testo di Marcuse a una quindicina di allievi. Ho cominciato alle due e venti. Avevamo finito l'orario scolastico alla una. La presidenza ci ha concesso l'aula. Sono stati gli studenti a chiedermi di parlare dell'Uomo a una dimensione. Quella loro quasi incredibile voFranco Forlini - 61

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