solo. Per me in Italia si è narratori anche quando si scrivono racconti. Anche se il Boccaccio con Fiammetta e Dante con la VitaNova hanno scritto, secondo me, due grossi romanzi, io sono arrivato al racconto dopo aver letto Cechov e capito che non si potevano più scrivere racconti come il Boccaccio. Nella struttura di un racconto l'importante sono l'inizio, interno e se possibile repentino e la fine, sempre improvvisa, imprevista, repentina e interna. In genere i finali mi sono sempre venuti con naturalezza. Mi accorgo sempre in altri racconti o nei film quando i finali sono fuori, sono forzati. È la prima critica che mi viene di fare. In questo mi hanno aiutato le letture dei francesi come Balzac, Stendhal a questo concetto del finale giusto, ci sono arrivato da me, piano piano. Pur non calcolando al millimetro, sapevo dove dovevo andare e cosa volevo dire, e di questo sono sempre stato cosciente. Semmai le maggiori difficoltà sono state quelle di aver preso, più tardi, sempre temi astratti come la siccità, la miseria, il gelo. Argomenti che sono collocati sul filo che separa il razionale dall'irrazionale. Io non credo molto all'ispirazione (diceva bene il Manzoni che: "ispirazione è il lavoro quotidiano") però a me qualcosa è successo.Perché, ad esempio, mi è venuta in mente una parola sola? Qualcuno ha scritto: "Bilenchi andava bene sino a quando usava la metafora, poi si è scoperto con il Bottone di Stalingrado". Ecco io su questo non sono d'accordo. Io non mi sono messo a tavolino per scrivere la metafora della siccità che è il fascismo, della miseriache è la guerra. Oddio, ero molto influenzato da quello che succedeva, perché sono una persona che si interessa di politica e dunque ciò che vedevo della guerra, delle oppressioni, di certe situazioni, mi impressionava. Però non mi sono messo a scrivere pensando: faccio questo o quest'altro. Magari in un secondo momento, rileggendo, ho potuto pensare che "miseria" significa soldati, guerra, Varsavia, ma se è così non l'ho certo fatto vobottega lontariamente. Se metafora c'è, è involontaria. Se al lettore risulta, tanto meglio per me, arrivo a dire anche questo. In una recensione si diceva che li gelo rappresenta il gelo sociale. A leggere queste cose mi cadono le braccia. Quando scrivo, i miei problemi sono altri. Il problema di svolgere questa parola "gelo" l'avevo dentro da dieci anni. Diciamo come una specie di sinfonia, una di quelle musiche molto ripetitive, come un bolero. Il problema era svolgere questa sinfonia in letteratura, svolgere con fatti per lo meno verosimili un concetto astratto. Scrivendo si parte da un particolare, come sviluppo di questo particolare se ne presentano altri mille, ma buono è uno solo e bisogna trovare quello. Come lo trovo sono avvertito e mi fermo. Nel '72, parlando con Pampaloni, dissi che volevo scrivere un racconto. Il titolo era li gelo. Ne scrissi una pagina e mezzo, poi presi degli appunti. Poi mi ammalai. Passato qualche anno scrissi di nuovo un pezzo. L'anno scorso rilessi le prime dieci righe del primo pezzo, buttai via tutto e lo riscrissi due volte in quattro mesi. Così avevo scritto anche i primi racconti. D. - Fino a che punto nei tuoi romanzi e in particolare nel Bottone di Stalingrado, la memoria storica si intreccia con la narrazione? R. - Alle recensioni che toccano il problema della storia, io rispondo dicendo che non c'è ragione che uno scrittore, in Italia, rifiuti la storia e la sua realtà. Se parliamo di questo rapporto, che è poi una questione di contenuto, devo dire per quanto mi riguarda che fin da ragazzo ho sentito parlare di comunisti, fascisti, milizie, guerra, e rivoluzione russa. A sette anni, mia madre ci leggeva le cronache sulla rivoluzione russa dell'Avanti! della Nazione. La mia famiglia, anche se benestante, aveva una cultura di sinistra e questo su di me ha influito. Quindi certi problemi, certe cose, certe persone mi diventano oggetti poetici, e io non posso rifiutarli. Come potrei? A Romano Bilenchi - 57
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==