narrativae memoria dell'emergenza. Rossi mi aveva detto: "Non so ancora quello che dovrai fare, o rimanere in centro e occupare la Nazione con una squadra di partigiani, o essere spedito in un altro posto". li problema del giornale era stato risolto; comprato il tedesco che avrebbe dovuto rendere inagibili le tre rotative gettando nei rulli alcuni sacchetti di sabbia, era facile prenderne possesso. Avrei più volentieri combattuto. Nella busta trovai l'ordine di recarmi alla tipografia del partito, in via del Palazzo Bruciato, a Rifredi. Sul ponte del Mugnone, dinanzi a via dello Statuto, avevano già preso posizione i tedeschi, con due mitragliatrici a ogni lato e altri soldati sul marciapiede armati di mitra e di bombe. Indossavo pantaloni estivi color kaki e una camicia azzurra. Nella mano sinistra tenevo una scatoletla di cartone bianco con dentro la pistola, due caricatori e la fascia tricolore del Comitato toscano di liberazione. Camminai diritto verso i tedeschi che si scostarono per lasciarmi passare. Nella tipografia trovai gli amici Orazio Barbieri e Luigi Sacconi e una decina di operai. Quando tolsero la corrente elettrica non potemmo più stampare né numeri dell'Unità in formato ridotto, sulla quale pubblicavamo le notizie di tutte le violenze, di tutti i delitti che i tedeschi compievano a Rifredi, né manifestini, né manifesti invitanti alla lotta. Barbieri, che voleva raggiungere l'Arno e vedere dove gli alleati si fossero attestati, e Sacconi se ne andarono. La tipografia era bene armata, nascosta da 1,1nvialetto alberato, ma di lì non sarebbe stato possibile combattere. li dietro era addossato a un alto caseggiato e non avremmo avuto una strada per indietreggiare. Radunai gli operai e chiesi loro che intenzioni avessero. Alcuni erano anziani e dicisero di tornarsene a casa. Io, Aldo Dugini e i più giovani entrammo in una squadra d'azione popolare, ma sembrandoci che pochi avessero voglia di rischiare ci rifugiammo nella casa di Dugini, in via della Cernaia. Ogni tanto uscivamo per accertarci di quello che facevano i tedeschi. La zona era abbastanza tranquilla, le strade piene di abitanti. Talvolta i tedeschi, da piazza della Vittoria, sparavano raffiche di mitragliatrice quando la strada era deserta. Entravano nelle ville lungo il Mugnone, sparavano dalle finestre oltre il fiume, gettavano fuori quello che trovavano, soprattutto stoviglie, riempivano di cocci gli argini verdi d'erba. Quando si erano sfogati se ne stavano calmi per qualche giorno. Avevano ucciso soltanto un uomo che rimaneva, con il suo vestito scuro, disteso bocconi nella poca acqua. Una mattina, mentre sedevamo sugli scalini della porta di casa, venne un giovane del partito d'azione che non conoscevo e disse a Aldo: "C'è un ufficiale dell'aviazione, badogliano, che muore di fame. Noi non possiamo aiutarlo, e voi? Sta in via delle Cinque Giornate al numero 4". "Abbiamo poche uova conservate sotto la calce e farina gialla che un compagno ha trovato nella casa di un fascista fuggito al Nord. Possiamo portargliene un po"' rispose Dugini. Dalla nostra casa a via delle Cinque Giornate il tragitto era breve. "Questi tipi credono a tutti. Non sarà mica un'imboscata?" disse Aldo. Sull'imbrunire, uno dietro l'altro, rasente i palazzi, ci avviammo verso la casa indicataci. Giunti al quadrivio di via Crispi, dovevamo voltare a sinistra. Mentre tentavo di accertarmi, oltre l'angolo della strada, che non ci fossero tedeschi, dall'altro lato una signora affacciata alla finestra che poteva vedere meglio di noi ci fece un fischio. Mentre mi giravo, dalla parte del Mugnone qualcuno sparò un solo colpo; la pallottola mi sfiorò la testa e battè nel muro, sentii un leggero calore. Temetti di essere stato colpito, ma non provavo dolore. Mi carezzai al testa, guardai la mano, era sporca di cenere. La pallottola mi aveva sfiorato lasciandomi tra i capelli una perfetta striscia bianca, come me li avesse rasati un barbiere. Ci Romano Bilenchi - 49
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