racconti italiani massimo "mettendoci in maschera" vogliamo dire che c'è solo questo viso, ed è falso: cioè artificio, apparenza e basta, senza alcuna "profondità" sotto. O forse nemmeno vogliamo dire qualcosa, sempre storditi e leggerini come siamo, proprio nulla, solo vestirci bene e truccarci per il ballo e per la musica. Diventare potenti, a forza di trucco e artifici, come forze della natura: diventare potentissimi. Come naturalmente è artificiale il paradiso della musica - anche qui, dove pure sembra non finire mai; e queste luci anche, per forza, sono artificio, che sarebbero se no, e le plastiche i metalli i tessuti scintillanti del mio vestito, anche "e una volta vestivi così bene, Mary'' e lo strato di colore sul viso, come volete che non sappia che è un artificio, maquillage, strumenti di scena? Mi piace molto dipingermi o alterare e anche spezzare i tratti del viso fino a renderlo irriconoscibile; ma non sostituirlo con un altro, "finto". Nessuno qui, in senso proprio, si mette in maschera. Non si fanno veglioni di carnevale o mascherate, qui al nostro "Paradiso". Così capite che non potevo prendere per un trucco consueto, per la personale invenzione di uno di noi, la comparsa qui dentro dell'uomo con la testa di cane. (O forse era un altro animale? Orecchie aguzze, muso aguzzo). L'ho intravisto, e fu una improvvisa lama di gelo nella febbre della musica. Riuscii a dimenticarmene, affidandomi tutta al lungo suono delle chitarre elettriche, ai vortici di luce, ai suoni bassi che percuotono lo stomaco, rimanendo a lungo nell'aria col mutare di un accordo: all'attesa prolungata e alla ricompensa infinita. L'attrezzeria neoromantica del rock, direte voi. Io mi augurai che quanto avevo visto fosse soltanto una allucinazione. Cercai comunque di non guardarmi troppo in giro. Mi sorpresi a ricordare ugualmente l'apparizione, a cercare senza successo di farmi tornare in mente qualche altro particolare: della figura, dell'abito, o delle mani. Fu con infinito orrore che lo rividi, alzando lo sguardo, quando il gruppo sulla pedana terminò di suonare e si accesero per un poco le luci di sala, bianche e fortissime. Era là, vicino ai ragazzi che accordavano gli strumenti, o ne provavano di nuovi, intanto fumavano una sigaretta o ridevano, passandosi una lattina di birra. Se ne stava tranquillo, più che tranquillo: in una posizione di assoluta immobilità, come fosse seduto su una pietra invece che una poltroncina di discoteca - come fosse egli stesso di pietra. L'uomo con la testa di cane, con le orecchie a punta, molto lunghe e aguzze, guardava verso di noi ma il suo sguardo sembrava non vederci, passava oltre i nostri corpi, come fossimo morti da chissà quanto tempo. Lo pensai in un lampo, per tentare di definire quello sguardo completamente vuoto che invece - ne sono sicuro - mi vide. In quella luce chiara la figura nettamente contornata dell'uomo con la testa di cane era un idolo di pietra nera - se provavo però a fissare con precisione i contorni della figura e non la zona di spazio che quei contorni racchiudevano, la vista si confondeva, non sembravano più così netti come alla visione di insieme. La luce scivolava sui contorni di quella figura o era inghiottita al suo interno, restituita poi in forma di quieto splendore - allora porta un abito di stoffa scura, pensai del tutto scioccamente e senza connessione. Mi sembrò strano che nessuno lo notasse, eppure era anche normale e giusto lì al "Paradiso", tra le voci e i rumori della sala ormai disimpegnata dalla tensione, dall'eccitazione, dalla festa - era solo una presenza di sempre. Non l'ho più rivisto da allora; nessuno credo, capisce davvero perché il mio volto si sbianca, ogni volta che sta per terminare la musica. 32 - Severino Cesari
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