Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

racconti italiani del resto, annuiva senza riserve. Passò più d'un'ora tra pianti e affermazioni lapidarie. Fui sicuro che la crisi era passata quando Zelinda si mise a fare i suoi soliti complimenti sulla nostra famiglia e si decise a bere un sorso di marsala. Tornai a giocare, con l'incarico di passare prima in ospedale per avvertire mio padre di quel che succedeva. A due passi dall'ospedale c'era la chiesa, maestosa, tutta di mattoni. Di pomeriggio giocavamo a calcio sul piazzale di fronte, perché il campo era occupato dai grandi. Se pioveva potevamo usare alcune salelle della parrocchia, dove trovavamo, ben allineati, tre vecchi biliardi e un traballante tavolo da ping-pong. li prete che si occupava di quei giochi si chiamava don Giuseppe, e mi sembrava simpatico perché aveva una Vespa nuova di zecca e sapeva giocare a calcio. Quel pomeriggio trovai i miei compagni imbronciati. Il pallone era finito sul tetto, e don Giuseppe doveva partire per un'estrema unzione. Ci spostammo in gruppo verso la piazza e giocammo a lanciare le monete contro un muro. Persi presto tutte quelle che avevo e misi anch'io il broncio. Quando vidi don Giuseppe sulla sua Vespa gli corsi incontro, per farmi dare le chiavi dei biliardi. Lui rallentò e rispose: "Sempre sia lodato". Ma anziché fermarsi innestò la prima per affrontare la salita che portava in chiesa. "Porto Nostro Signore" spiegò sorridendo e impostando con cura la curva stretta. Ecco cos'era il rigonfiamento che aveva sul petto, il contenitore delle ostie. li suo sorriso mi colpì molto, in fondo tornava da un'estrema unzione. Stabilii che la serenità doveva derivargli dalla consapevolezza di aver svolto una missione importante, come la mia tristezza derivava dall'aver dilapidato tutta la paga settimanale. Di Zelinda mi ero dimenticato. Mi tornò in mente verso sera, quando ero già in ritardo per la cena. Arrivai a casa con la busta del pane, preso a credito, che nessuno mi aveva chiesto ma che sapevo avrebbe addolcito i rimproveri di mia madre. Appena notai, vicino al portone, la Vespa di don Giuseppe, mi resi conto che del pane non c'era più bisogno. Infatti in casa avevano altro a cui pensare. Mia madre mi spinse via dalla sala, dove stavano tutti attorno a Zelinda, ma se ne tornò subito dagli altri lasciandomi curiosare. "Mi dispiace" diceva mio padre col tono di ripetere. "Devo avvertire i carabinieri, non posso prendermi questa responsabilità". Don Giuseppe si teneva il mento tra il pollice e l'indice e quando mio padre giunse sulla soglia gli fece cenno di aspettare. Intanto Zelinda mandava un suo ritornello: "È tanto buono, se ve lo dico io che è tanto buono ... " Mia madre faceva del suo meglio per tranquillizzarla, ma Zelinda aveva occhi e orecchie soltanto per mio padre, rimasto fermo sulla soglia con l'espressione più severa che gli conoscevo: il viso leggermente in avanti e gli occhi neri fissi sul suo interlocutore. "Se Zelinda non vuole denunciare l'accaduto" disse il giovane sacerdote "non possiamo costringerla a farlo". Zelinda (aveva fatto chiamare lei don Giuseppe) non si curava neppure di lui, come avesse chiamato il suo avvocato anziché il prete. li giudice, cioè mio padre, alzò le braccia e tenne le mani spalancate per diversi secondi. "D'accordo" disse. "La responsabilità però se la prende lei". La vecchia corse verso mio padre, gli catturò le mani e gliele baciò ripetutamente. Aveva le guance lucide di laccrirne, ma sembrava felice, ora. Non è un lieto fine, questo, perché Zelinda aveva ottenuto di continuare a farsi picchiare da quel figlio misterioso. Misterioso, venni a sapere, soltanto per noi ragazzi. Gli adulti della cittadina sapevano che esisteva, ma pur essendo tutti pettegoli non ne parlavano volentieri. Avevano rispetto, per !'.elinda, o pietà, se si vuole. li più ricco della cittadina, un vecchio elegantissimo che la conosceva da sempre, si levava il cappello quando la incontraClaudio Piersanti - 21

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