Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

racconti italiani di vero doveva esserci. Quando andai a vedere quella casetta, nel borgo più povero, costruito alla base della colline del Municipio, lei non sembrò contenta di vedermi. Stava uscendo di casa, e si affrettò a chiudere l'uscio e il cancello, con numerose mandate di chiave. Mi prese per mano e affrontò la salita che portava alla piazza con una foga per lei inusitata. Aveva lo sguardo particolarmente umido e commosso, e ripeteva che ero "bello e buono, tanto buono". Tutti nella mia famiglia, secondo lei, avevano queste qualità. Quando parlava mi stringeva più forte con le sue dita lunghe e ossute, dalla pelle così sottile e lesa che mi provocava un profondo disagio. Non saprei dire meglio perché. Saliti fino in piazza ebbi un bel daffare per staccarmi da lei: voleva assolutamente offrirmi la pizza, o regalarmi cinquecento lire. I miei compagni, seduti sul giardino del Municipio, sotto l'orologio, mi indicavano e ridevano. Li raggiunsi e dissi una bugia di cui ancora mi vergogno. Giurai di aver visto, attraverso la finestra, la faccia di matto del figlio di Zelinda. Nessuno dubitò della veridicità di quel che dicevo. Un ragazzo più grande, che era uscito dal bar lì di fianco e si era portato dietro un bicchiere di amaro col ghiaccio, disse che anche lui lo aveva visto, anni prima, dietro la rete di recinzione del campo di calcio. Aveva intravisto anche Zelinda, poco più in là, nascosta dietro gli spogliatoi. Quando ne parlai a mia madre lei mi disse seccamente di non fare il pettegolo. "Povera donna" disse di Zelinda, "non puoi immaginare quanto soffre". Zelinda e la sofferenza, quella sofferenza cupa che vedevo in televisione, divennero per me un binomio inscindibile. Anche perché cominciarono a capitarle sempre più strani incidenti. Si presentava spesso in casa esibendo qualche fasciatura. "Sono caduta al mercato" spiegava senza prendersela troppo. Oppure diceva: "Mi sono tagliata facendo la 'legna". E tanti altri incidenti di questo tipo. Mio padre cercò di visitarla, ma lei non ne volle mai sapere. Diceva che erano cosa da nulla e poteva benissimo curarsi da sè. Riusciva a dare l'impressione di avere in fondo scansato un pericolo maggiore e di essere per questo, una volta tanto, di buon umore. Faceva i suoi rari sorrisi, quando raccontava degli incidenti, e si dava dei colpetti sulle ginocchia per prendersi in giro. Aveva pochi denti da mostrare in un sorriso, e una lunga lingua da uccello. Le sue spiegazioni convinsero fino a un certo punto. Fino a quando, per la prima volta, mancò l'appuntamento della cera. Venne soltanto il giorno dopo. Le aprii io la porta, e rimasi di stucco. li lato destro del volto, per quanto cercasse di nasconderlo con fazzoletto, era tutto un livido. Non disse niente a mia madre e si infilò nel bagno di servizio, dove si mise a strizzare gli stracci. Mia madre la raggiunse poco dopo perché sentiva che piangeva. La fece sedere su una poltrona e le versò un marsala all'uovo, nella speranza di farla riprendere. Zelinda si teneva il viso nascosto col fazzoletto, piangeva scossa da brividi che mettevano paura e non parlava, e non voleva neppure bere il marsala. Mia madre si sedette sul bracciolo, accanto a lei, e aspettò che le passasse senza assillarla con inutili domande. Ogni tanto le staccava una mano dal volto e gliela stringeva tra le sue. Poche volte mi è capitato di veder piangere così a lungo, e mai una persona di quell'età. Mi sistemai in un angolo della stanza e restai a guardarla rosicchiandomi le unghie. Ammetto che la curiosità aveva la sua parte, ma era quella curiosità bacata che ci spinge a guardare le cose più tristi anche quando sappiamo che ci faranno male. Ricordo che Zelinda disse: "Quante cose brutte, signora mia". Ma di quali "cose" si trattava non lo disse. Sembrava si riferisse a un concetto così generalmente noto da non avere alcun bisogno di fare degli esempi. Mia madre, 20 - Claudio Piersanri

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