Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

raccontiitaliani una filastrocca. E quanto le aveva dato voglia di piangere le tolse anche la voglia di piangere: e poi dalla biblioteca traboccava una luce cruda, il pavimento era percorso da cavi e qualcuno parlava a voce troppo alta. Chiedono un'intervista per il telegiornale della sera, disse Françoise, ha telefonato personalmente il presidente della televisione, ho posto un limite massimo di tre minuti, ma se non se la sente li licenzio. Ils sont des betes, aggiunse con disprezzo. Non era vero, dopotutto. Il giornalista era un giovanotto dall'aria emaciata e intelligente, con le mani ossute che tormentavano il microfono, pareva conoscere profondamente l'opera dello scomparso, cominciò con alcune citazioni di un libro giovanile, sotto la sua arguta disinvoltura c'era anche un sottile imbarazzo, lo capì. Le chiese l'interpretazione di una frase che era diventata un motto, quasi il simbolo di un'intera generazione: anche la scuola ormai l'aveva fatta sua, in un'accezione positiva, ovviamente, perché la scuola ama le definizioni positive; ma ecco, lo chiedeva ora a lei: quella definizione degli uomini non conteneva forse una sfuggente ironia, un germe negativo travestito e un po' perfido? L'insinuazione le dette allegria, le consentiva una risposta sfuggente mascherata di sprovvedutezza: era una domanda che le favoriva così generosamente il rifugio nel ruolo della vedova dello scrittore, di colei che può parlare delle cravatte che lui preferiva: e così fu banale e disarmante, talmente inferiore alla domanda: che era quanto il giornalista si aspettava da lei. Confermò in modo sublime che era una donna fine, intelligente, un'ottima compagna: e che poteva fornire preziose testimonianze. E questo condusse inevitabilmente all'indiscrezione biografica: un'indiscrezione elegante, perché il giovanotto era una persona garbata, e avrebbe gradito per i telespettatori che lei raccontasse un episodio della loro vita. Che poi voleva dire, era sottinteso, un episodio della vita di lui. E lei glielo raccontò, perché mai non doveva farlo?, e ne scelse uno virtuoso, naturalmente - virtuoso e con una punta di nobiltà, perché la gente ama la nobiltà, specie la gente volgare. E nel fare ciò provò un sordo rancore con se stessa, perché avrebbe desiderato raccontare un episodio assai diverso; ma non certo a quel giovanotto cortese sotto quei riflettori prepotenti. Tacque. E fece un affranto sorriso pieno di dignità. Del viaggio verso il duomo non registrò niente, solo immagini confuse, rapide, che i sensi accolgono ma non ritengono. La fecero entrare in un'automobile scura, foderata di grigio, con un motore silenzioso e un autista silenzioso; e anche alla cerimonia fu presente come se non fosse presente; fu lì solo con il suo corpo e lasciò che la mente vagasse altrove, a suo piacimento, nella geografia dei ricordi. Parigi, Capri, Taormina; e poi affiorò una casetta umile e pittoresca, che non riuscì a localizzare, e le parve buffo, si concentrò con tutta se stessa su una stanza che ricordava in dettagli insignificanti e vivissimi- un umile letto d'ottone, una sacra famiglia sopra il letto dipinta secondo l'iconografia popolare: ma non ricordava il luogo, che incredibile. Dov'era? E nel frattempo l'arcivescovo aveva pronunciato la sua lunga omelia funebre, che certo era stata di ottimo livello. Sentiva freddo. Era questa l'unica sensazione, anzi l'unico senlimento, pensò, che potesse tenerle il pensiero occupato; un enorme freddo dentro la pancia, come un blocco di ghiaccio che premesse contro le pareti dello stomaco, tanto che passò il resto della cerimonia con la mani strette sul grembo. E poi il freddo si dilatò e le invase gli arti: le mani no, che sentiva brucianti; ma le spalle e gli avambracci, e anche le gambe e i piedi, che non sentiva più, come se fossero congelati, nonostante muovesse spasmodicamete le dita dentro 130 - Antonio Tabucchi

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