Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

raccontiitaliani per il lutto della Cultura. Così disse, infatti: la nostra cultura perde oggi la sua voce maggiore. E ciò era giusto e incontrobattibile, non lasciava spazio al pianto. Ringraziò con una frase sincera e chiara, scandita con fermezza: e anche questo apparteneva al cordoglio civile e onesto che gli uomini hanno inventato e che non prevede le forme oscure del dolore. Ah, come avrebbe voluto piangere. E poi lui toccò la gratitudine, che suscita la commozione e che è una forma minore di sentire dolore, e che si trovava in una periferia molto lontana del suo animo, dove c'era la nostalgia. E con la gratitudine parlò anche di progetti, di iniziative, di un debito di riconoscenza cui lo Stato voleva assolvere: una fondazione, magari un museo, con borse di studio e celebrazioni ufficiali. Ricorrenti, specificò. E questo la rallegrò, le dette un sollievo senza conforto, la fece pensare a un futuro già compiuto, alla convenzione di un monumento. Pensò anche a come la nazione fosse cresciuta, a come fosse diventata matura, a suo modo intelligente, cosa che aveva desiderato per tutta la vita: e disse di sì, sì certo, il Paese si meritava questa eredità, ringraziava dell'offerta e della proposta; ma in questa casa viveva ancora lei, vi avrebbe vissuto ancora per poco, la vita non dura più che tanto, e non voleva dividerla col sentimento di una nazione, per quanto nobile fosse. E intanto la mattinata era cresciuta e nel giardino, c'era una grande folla. Il ministro uscì e lei si mise alla finestra. La pioggia forte aveva ceduto il posto a un'acquerugiola di nebbia che pareva salire dalla terra. Vide delle automobili che arrivavano silenziosamente, ne scendevano signori dall'aspetto grave che il cerimoniere andava a ricevere con l'ombrello per guidarli fino all'ingresso. La formalità efficiente e funzionale di quei funerali di stato le dette un sottile conforto, perché sollecitò il suo senso pragmatico del rituale. Sentì che non doveva indugiare più a lungo nella solitudine del suo ritiro; chiuse le tende, imboccò le scale e scese senza reggersi al corrimano: lentamente, a testa alta, pallida, fiera, tesa, con gli occhi asciutti, guardando in viso la gente e mostrando che non guardava nessuno, che il suo sguardo era altrove, nel suo passato, forse, o rivolto all'interno del suo animo: ma non certo lì, fra le suppellettili di quella impeccabile camera ardente allestita con gusto e con classe. Attese al capezzale del feretro, come si veglia un vivo e non un defunto, che le sfilassero davanti, che le baciassero la mano, che le si inchinassero, che le mormorassero formule di cordoglio e di commiato. E mentre attendeva, in piedi, lontana anche da se stessa, il cuore le batteva calmo, pausato, tranquillo, estraneo alla devastazione assoluta che invece curiosamente sentiva in modo fisico sulle spalle: la terribile evidenza senza appello della constatazione. Si lasciò interrompere da Françoise, che ricevette quasi come una visitatrice anch'essa, con lo stesso sereno distacco, e che accettò di seguire senza replicare, abbandonandosi a ordini confortanti, lasciandosi guidare per mano nel corridoio che le parve di una lunghezza infinita; e anche il consommé bollente le parve doveroso e obbligatorio. No, non voglio riposare, replicò alla sollecitudine affettuosa della ragazza; non sono stanca, non si preoccupi per me, reggerò perfettamente. Ma erano parole lontane, come se qualcuno le pronunciasse al suo posto: e lasciò che Françoise la obbligasse a stendersi sul divano, le sfilasse le scarpe, le passasse un fazzoletto intriso di colonia sulla fronte. Lui correva sulla spiaggia, dietro alla spiaggia c'erano le rovine di un tempio greco, e lui era nudo. Nudo come un dio pagano, con una corona d'alloro sulla fronte; e per la corsa i suoi testicoli ballavano in modo buffo, 128 - Antonio Tabucchi

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