Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

raccontiitaliani Antonio Tabucchi Aspettandol'inverno E poi l'odore di tutti quei fiori: nauseante. Ma anche la casa, la pioggia che velava gli alberi, gli oggetti nelle teche di vetro - ventagli spagnoli, una madonna incinta di Cuzco, gli angeli barocchi, le pistole del seicento: tutto nauseante, lo sentiva, e anche questo era dolore, una sua forma di manifestarsi che ospita la pena, l'intollerabilità degli oggetti che ci circondano, la loro stolida e massiccia perentorietà che non prevede i cambiamenti della vita e che vive nella sua immanenza irraggiungibile, in una fisicità flagrante e innocente, e per questo irraggiungibile. Ah, disse, non ce la farò, credo che non ce la farò. Disse così e si toccò la fronte, che era calda, e si sostenne alla spalliera di una sedia. Sentì un nodo di pianto che le stringeva la gola e si guardò allo specchio. Vide un'immagine austera, nobile, forse altera; e pensò anche: quella sono io, non è possibile. E invece quella era lei, e anche in questo consisteva la sua pena: il suo dolore di vecchia donna ferita dalla morte ospitava anche la pena per quella sua immagine di vecchia donna pallida, elegante, con i capelli coperti da una mantiglia di pizzo nero; una mantiglia tessuta con tedio e perizia in tetre stanze da donne iberiche taciturne e infelici, pensò. E le venne in mente Siviglia, tanti anni prima, la torre della Giralda, la vergine della Macarena, una commemorazione solenne per un poeta morto da secoli in una sala con mobili austeri e cupi. Ma in quel momento sentì bussare alla porta e si affacciò Françoise. Signora, il ministro vorrebbe essere ricevuto, disse. Che tesoro, Françoise. Pareva così minuta, così fragile, con quel visetto da topo e gli occhialini tondi che le davano un aspetto di bambina senza tempo. Pensò alla sua intelligenza, alla sua prontezza, alla sua dedizione, alla sua fiducia nella letteratura, totale e ottusa. Digli di attendermi nel salottino, disse, verrò fra pochi istanti. Le piaceva parlare così. "Pochi istanti", "un attimo", "lascia che mi attenda un momento": era un modo urbano di essere superba e lontana da se stessa, come un attore che ama essere un altro sul palco per dimenticare un vuoto che sente dentro di sè. Si guardò di nuovo allo specchio e si accomodò la mantiglia. Non devi piangere, disse alla bella vecchia che la guardava, ricordati che non devi piangere. Ma sarebbe stato impossibile piangere. Perché il ministro era roseo, grassoccio, e vestiva di nero, e le baciò la mano con un inchino; era un uomo congruo con la situazione, e anche colto, come raramente lo sono i ministri, e ammirava sinceramente lo scomparso: e tutto questo non favoriva il pianto. Almeno fosse stato un uomo mediocre e indifferente in visita per dovere e per civismo, abituato a frasi ovvie, a formule di circostanza intrise di cerimonia, a parole da ministro: allora si avrebbe pianto, dando sfogo a quella sua pena larga, diffusa, equivoca. Ma con quell'uomo no, perché era sinceramente addolorato Antonio Tabucchi - 127

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