Linea d'ombra - anno I - n. 1 - marzo 1983

racconti italiani giandosi al braccio deUa parente di turno. Somigliava per l'espressione corrucciata, per i lunghi capelli, non certo per la ricchezza degli abiti, all'elegante nana del celebre quadro Las meninas di Velasquez. "Certo", pensavo, "la deformità fisica, perdute le corti che l'avevano protetta per il proprio sollazzo, il più possibile sottratta al mescolamento col conforme, è poi finita esclusivamente nei circhi, nel cinema, ovunque possa diventare sopportabile come ininterrotto spettacolo''. E rivedevo al serie dei deformi di certi dipinti di Velasquez. li presunto buffone Antonio ritratto mentre tiene al guinzaglio un cane più grande di lui; il nano don Diego de Acede, buffone e contabile dallo sguardo grave, virilmente consapevole della disgrazia, che regge un librone aperto dinanzi a sè, come fosse egli stesso divenuto l'essenza rimpicciolita della contabilità. Il nano Sebastiano de Morra, infine, seduto per terra come si addice a un infante buffone, dallo sguardo intelligente ma tristissimo, con un inizio di domanda negli occhi, mai portata a termine: per sconforto, senz'altro, non certo per incapacità, mi pareva di capire da queUo sguardo. Il nano del treno continuava quella tradizione del corpo deforme che si fa accettare solo se capace di produrre il piacere dello spettacolo, e modernamente ne aveva fatto una coscienziosa professione che gli procurava, a suo avviso, orgoglio e dignità nel mondo di cui il nostro compartimento rappresentava un piccolo spicchio. Era una professione scrupolosamente coltivata, potata, sorvegliata come una pianta. "Bisogna tenersi continuamente in esercizio", ammoniva rivolto in apparenza solo alle donne del suo seguito che accondiscendevano tranquille, conoscendo l'abilità dei gesti ripetuti nel quotidiano cui mancava, però, la teatralità, la tensione istrionica, per trasformarli in piacere. Con il suo completo grigio, cui solo le bretelle concedevano una lieve follia, egli sembrava il saggio amministratore della propria acrobatica deformità, che come casualmente citava offerte di partecipazione ad altri spettacoli, da ogni parte del mondo, e di sfuggita, con discrezione, faceva balneare nel buio la qualità - misto di follia e scrupolo - di ciò che dava. Ma perchè continuare a fingere, a tergiversare? La cosa che mi sorprendeva di più era il connubio tra quella donna e il nano. Ho già detto che avevo leggermente trasalito dentro di me vedendo la grossa testa aggiustarsi su quel seno accogliente. Ora dovrò precisare meglio la mia impressione. Insomma, io non potevo fare a meno di sentirmi scombussolata, di vedere tutto l'orrore di quell'unione, non solo per l'aspetto mostruoso del corpo di uno dei due, ma perché mai così chiaramente era apparsa davanti a me la scena della Pietà, di una Pietà defraudata di ogni contorno ideale, come se un invisibile e maligno scalpello, infierendo sul corpo del figlio, deformandolo, avesse fatto dall'altra parte uscire, dalla carne materna, voglio dire, l'essenza della sola pietà possibile, quella che non può in alcun modo essere diminuita dalla forma materiale del figlio. La donna che sosteneva la testa del nano aveva forse vinto l'orrore di quella pietà calandosi tutta nella pietà per quell'orrore. Appariva, infatti, lei, una mansueta, una cuoca qualsiasi, una materna e ordinaria vivandiera dai toni nocciola: come una qualsiasi riceveva quel corpo, come pare sia dei veri eroismi, secondo alcuni, delle grandi idee divenute esseri umani, comuni viventi affaccendati, con naturalezza chini sulle loro terribili faccende come si trattasse delle piccole pene di ogni giorno. 126 - Maria Schiavo

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