raccontiitaliani ria lo sapeva, ma non alzava il capo, immersa nella sensuale comunione col cibo e in oscuri pensieri sull'anima e la sua vendita. Con la bocca impastata pensava: - Lasciatemi in pace, vi prego. Chissà quando sarò di nuovo così piena! - Ma le veniva un'angoscia. Sentiva drizzarsi lungo i suoi gomiti i peli dei gatti e · ogni tanto la lambiva, ruvida e fuggitiva, la lingua di un cane. - Ora mi mangeranno - pensava, avendo imparato nel suo giardino che chi mangiava, prima o poi, veniva a sua volta mangiato. Si alzava e si rifugiava accanto a Pedròn che invece di essere spaventato rideva. - No hasde donar-lifansols una mossegada! - le diceva. Quando aveva finito il suo pezzo di pane e sopressata Pedròn, prima di riappenderla, come volesse indulgere al principio che è meglio l'eccesso dell'astinenza e della privazione e che bisogna godersi la vita prima di morire, gliene spalmava ancora un'abbondante punta di coltello su un altro minuscolo pezzetto di pane, che solo serviva a sostenerla. Così, quasi ai limiti del disgusto, Nuria si ingozzava. Dida voleva darle un bicchiere di acqua. -No teneset - diceva Nuria. Con quell'acqua che le offriva Dida pareva voler cancellare una colpa. E infatti aggiungeva: - No diguisa lasenyoraDominicaque t'he donai sobrassada! - La signora Dominica infatti stava attenta a tutti i cibi dei bambini e solo le parevano sani quelli che assomigliavano a pappe. Dida versava allora a schizzi l'acqua rifiutata da Nuria in terra per rinfrescare il pavimento. A Nuria arrivava odore di polvere umida. Dopo le piogge di autunno i nipoti di Dida tornavano dalla campagna con le lumache. Brillavano allora gli occhi a Dida. Tutta si affaccendava: soffiava sul fuoco, afferrava il paniere, lo faceva ruotare così forte che le lumache suonavano senza cadere in terra, metteva a rosolare l'aglio, la salsa borbottava sul fuoco lento, i gusci tintinnavano quando li girava col mestolo. Aspettava, seduta al tavolo; il prezzemolo, tritato davanti a lei sul tagliere, aspettava anch'esso il momento giusto in cui bisognava calarlo nella pentola. Il vapore faceva allungare le spirali di carta insetticida appese al soffitto, lucevano le mosche attaccate. La zuppa di lumache era per Nuria più che un cibo un universo, una carta geografica da esplorare. Le lumache sapevano di terra, Nuria le masticava curiosa, con leggera apprensione. Solo in quella zuppa, in quella casa tollerava l'aglio, se lo faceva squagliare in bocca. Quel pezzetto di aglio, rosolato prima e bollito poi a lungo nel brodo, pareva un pezzetto di carne di un animale fantasma. Provava angoscia immaginando che l'afferrassero per i denti, le strappassero la sua conchiglia interna di ossa e la calassero con dolcezza in un brodo di prezzemolo e aglio. La consolava un'ansia amorosa: - Se non mangio le lumache - pensava - Dida non mi vorrà più bene! - Non doveva mangiarle infatti perché facevano bene, come la esortava a tavola la signora Dominica, o perché facevano crescere, ma solo perché Dida le amava. Fissava Dida negli occhi e le diceva: -Aquest caragolsembla la tevaore/la. - Dida intanto succhiava e masticava voracemente, mettendo da parte il cucchiaio pescava con le dita nel sugo. Finita la zuppa Dida allontanava il piatto, come a dire che dopo le lumache non meritava di mangiare più niente. - Pedr6n - comandava - cerca'mqualqu fui/a de tabac! - Pedròn apriva il cassetto del comò, metteva delle foglie sul tavolo; le arrotolava e fumavano insieme. - Pedr6n - comandava ancora Dida - arafrega'm elspeus! - E glieli poggiava in grembo. Pedròn con una mano fumava e con l'altra massaggiava. Dida infatti nel suo cortile e in casa andava sempre scalza; appena arrivata si toglieva le scarpe; appendeva scarpe e calze alla corda perché prendessero aria e prima di entrare in casa si strofinava i piedi FabriziaRamondino - 113
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