trimes1rale di narrativa rBILENCHI- FORTINI- VOLPONI GIOVANISCRITTORIITALIANI BRAUTIGAN- PALEY- SCHNEIDER IL ROMANZOIN AMERICA RAMONDINO- SCHIAVO- TABUCCHI UNA STORIAPERFILM DI B. ZAPPONI
Abbonamenti1983 4 numeri: marzo, giugno (numero doppio), settembre, novembre LINEA D'OMBRA lire 18.000 - da versare sul conto corrente postale intestato a "Linea d'ombra" numero 25871203 o tramite vaglia postale o assegno bancario intestato a Massmedia Edizioni Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano I I I
sommario RACCONTI ITALIANI Piero Gaffuri Porlo Canale, Il nemico pagina 7 Claudio Piersanli I due figli di Zelinda 19 Pino Corrias Il rientro 23 Severino Cesari Heller Skeller Bar, Mutazione 30 Fabrizia Ramondino I servi 106 Maria Schiavo Incontro col nano 121 Antonio Tabucchi Aspellando l'inverno 127 RACCONTI STRANIERI Grace Paley Due brevi !risti storie pagina 67 di una vita lunga e felice Richard Brautigan Quallro raéconti brevi 77 Peter Schneider L'incontro 150 NARRATIVA E. .. Romano Bilenchi I tedeschi pagina 47 Franco Fortini Da un diario inesistente (1967-70) 59 Paolo Volponi Insonnia Inverno 1971 133 Bernardino Zapponi C'era una volta un taglialegna. 163 Storia per film. BOTTEGA Romano Bilenchi Come ho scritto i miei racconti. pagina 53 Intervista. Kurt Vonnegut Selezione 96 DISCUSSIONE Leslie Fiedler, Susan Il romanzo in America. Un dibattito. pagina 80 Sontag, Robert Boyers, Cynthia Ozick, Bharati Mukherjee, Gerald Graff. Goffredo Foti Narrativa e giornalismo. 101 Nota su Truman Capote Filippo La Porta Lo sguardo dell'adolescenza. Commento 40 a "La linea d'ombra" di J. Conrad Marino Sinibaldi L'ora del nuovo sentire. 157 Su Kluge a la narrativa tedesca Goffredo Foti Omaggio a Georges Perec 105 LIBRI DA LEGGERE pagina 176 ILL0USTRAZIONI DI MARIO SCHIFANO
<.:omilato di redazione Alfonso Berardinelli, Gianfranco Benin, Severino Cesari, Grazia Cherchi, Pino Corrias, Goffredo Fofi, Piero Galluri, Piergiorgio Giacché, Filippo La Porta, Claudio Lolli, Claudio Piersanti, Renzo Sabellico, Marino Sinibaldi. Direllore Goffredo Fofi Segretaria di redazione Mariolina Valla Direllore responsabile Severino Cesari L'immagine di copertina è traila dal quadro di Mario Schifano Vero Amore smallo su tela (1975). Ringraziamo Schifano e la Galleria Mazzoli di Modena che ci hanno permesso di riprodurre questa e le altre illustrazioni del numero. "LINEA D'OMBRA" Date di uscita: febbraio, giugno (numero doppio), settembre, novembre. Un numero lire 4.500. Numero doppio lire 6.000. Abbonamenti L'abbonamento annuo è di lire 18.000, da versare sul conto corrente postale numero 25871203 intestato a "Linea d'ombra" Iscrizione al tribunale di Milano in data 5-2-1983 - numero 55 Materiale inviato. l manoscri11i, anche se non pubblicati, non si restituiscono. La redazione si riserva di rispondere agli autori dei racconti pervenuti entro tre mesi dal loro arrivo. Si pubblicano poesie solo su richiesta dire11adella redazione. Editore: MassMedia Edmom Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Telefono 02/273891 Coordinamento editoriale Edoardo Fleischner, Lia Sacerdote Ufficio grafico Carlo Canarini Segreteria Paola Barchi Stampa: Litouric SpA Via Puccini, 6 - Buccinasco (Ml) Telefono 02/4473146 Distribuzione per edicole e librene: MassMedia Edizioni. Pubblicità: Fulvio Costantini Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Telefono 02/2711209 Numero l - marLo 1983 - L. 4.500 Chiusura in tipografia il 25-2-1983 Di questo numero sono stampale 6.000 copie
"Linea d'ombra" nasce dalla volontà di un gruppo di amici interessatialla letteraturacome autori o come lettorie critici - mapochi dei qualidefinibilicome "addettiai lavori" - di pubblicarei propri testi creativie leproprie riflessionie aprirsial confronto con testie riflessionidi altri.Nessunodi noi credesia questo il tempo di manifesti o di bauag/iedi correnteo di clan,né che "Linead'ombra" sia lasedeadatta a proporli. Ciò che soprattutto vogliamoè uno spazio nel quale la giovane narrativaitalianapossa conoscersie farsi conoscere,nel confronto con quanto le narrativestraniere propongono e con quanto c'è da apprenderedagliscrillori italianichepiù stimiamo. Privilegiamolaforma del racconlO, oggiun "genere" tra i più trascurati,per affermareil bisogno che la lelleratura,coi modi che a ciascunopiù aggradano, torni a narraresensibilità,idee,fantasie, avvenimenti, . cose e persone dei nostri anni. Convinti che la crisidellanarrativa,se crisic'è, dipenda anchedall'abbandonoo dal trasferimentodeisuoifini e delle sue acquisizioniad altreforme d'espressione(lapoesia, la storia, il cinema, il teatro, la televisione,la musica, ilfumetto, i/fotoromanzo, il giornalismo,lacronaca...), intendiamo documentarequesti passaggie questi scambi e analizzarli, studiarei loromeccanismie i loromercati.'Innanzituttopresentando testi. Convinti che l'arte dellanarrazionesiafatta anchedi tecnichee di mestiere,pubblicheremoriflessioni,interviste,insegnamentidi narratorie criticisullascrillura. "Linea d'ombra" proporrà Racconti italiani, Racconti stranieri,Discussioni e dedicheràregolarmenteunasuaparte ai rapportitra Narrativae... altricampidellacreazionee della comunicazione, e un settore, Bottega, al/è riflessionidi scriitorisullascrittura.Contiamo inoltredi pubblicareinfuturo rassegnee corrispondenzesullaletteraturadi altripaesi, e di dedicarealcuni numeri specialia singoli temi.
■ IN EDICOLA E IN LIBRERJA -- L'ILLUSTRAZIONE ....-..·~····'"' ITALIANA _,. •..,.~,., UN PERJODICO DA LEGGERE, DA GUARDARE E DA CONSERVARE COME UN LIBRO BIMESTRALE, LIRE 4.500 GUANDA
racconti italiani - giovani Piero Gaff uri portocanale Renzo faticava sulla banchina. Faceva caldo e le macchie di sudore conquistavano il giallo della sua maglietta. I lineamenti dolci del volto, i capelli castani tenuti un po' lunghi sulle spalle e una certa robustezza, in alcuni tratti spigolosa, lo collocavano nella fascia d'età che sta a ridosso dei vent'anni. Lavorava immerso nel verde di una montagna di angurie. Ad una ad una le angurie venivan9 caricate su una specie di chiatta, già colma per metà. Nessuno fiatava, gli uomini tenevano gli occhi fissi sul compagno più vicino e agguantavano al volo i frutti scaldati dal sole. Ogni tanto, ma succedeva di rado, le mani sudate mancavano la presa e un'anguria andava a spaccarsi sul cemento. "Fermi per un poco" disse uno. Le angurie smisero di volare e tutti si avvicinarono ai bordi della chiatta. "Caldo!" disse il più anziano e il meno sudato. Aveva indosso soltanto dei calzoncini chiari e un cappellino stinto. Era il capo della chiatta, al porto lo chiamavano Capitano. Renzo afferrò un pezzo di anguria, di quelle angurie che si erano aperte sulla banchina. Il Capitano guardava il cielo. Appoggiati al bordo c'erano cinque uomini. Due lavoravano come scaricatori al porto canale, gli altri tre, Renzo, il Capitano e un biondo ben piantato, componevano l'equipaggio del barcone. Il biondo, che aveva nome Gino, stava con le braccia conserte e gli occhi azzurri socchiusi. "Verrà giù un bell'acquazzone - disse il Capitano - speriamo solo che non ci prenda a metà strada". "Basta non sia grandine" disse Gino. Il Capitano gettò un secchio in acqua e Io tirò su traboccante. Mise una mano nel secchio e con la mano bagnata accarezzò il muso del suo cane, accucciato in punta al barcone. Poi si alzò dritto in piedi e, guardando gli altri quattro, disse: "Forza finiamo di caricare". Il volo delle angurie riprese e continuò per una buona mezz'ora. Renzo si sentiva meno affaticato adesso. Le angurie cominciavano a pesare, era noioso. quel continuo raccogliere e lanciare, ma il pensiero del viaggio sul fiume l'aveva messo di buon umore e sperava che il Capitano gli facesse tenere il timone. Aveva viaggiato altre volte con la chiatta, però ogni volta era come se Piero Gaff uri - 7
raccontiitaliani fosse la prima; gli piaceva il silenzio, l'aria fresca nel mezzo, il cane che abbaiava alla gente sui ponti. "Ultima!" gridò qualcuno; il Capitano appoggò l'anguria sulle altre. I ragazzi del porto canale se ne andarono asciugandosi il sudore con ·1emagliette. Il Capitano guardò il barcone per l'ultimo controllo. "Gino - disse a un tratto - ti sei ricordato quella tua bottiglia?" "È nel secchio di poppa, spero sia rimasta fresca". "Se il vino è caldo va bene lo stesso". Gino ridacchiò e tolse un cavo d'ormeggio, Renzo staccò gli altri e il barcone fu libero del tutto. Partì anche il motore e fece sussultare l'acqua intorno. Renzo e Gino si sedettero a prua. Gino tolse da una carta oleata metà salame e stappò una bottiglia. Il cane sentì l'odore del salame e saltò tra le loro gambe. Fermarono la sete bevendo metà bottiglia. Poi si sdraiarono a riposare. La barca vibrava in modo piacevole, vedevano solo il cielo. "li sole se ne sta andando" disse Renzo. "Meno male!" "Sì, scottava proprio". "Adesso è niente, aspetta agosto". Renzo si girò verso il Capitano. Stava in piedi a poppa e teneva impugnata la sbarra lunga del timone. Con dei leggeri spostamenti del braccio orientava la barca nelle anse del fiume. Conosceva ormai bene il fiume, erano anni che andava avanti e indietro. Il Capitano aveva un'espressione assorta, come se stesse pensando ad altro. "Ti è simpatico il Capitano?" chiese Renzo. Gino sorrise "È una persona in gamba". "Ma non è sposato?" chiese ancora Renzo. "E cosa importa!" "Chiedevo". "No, non è sposato. Però gli piacciono molto le ragazze". Renzo non commentò, ma voleva sapere del Capitano e delle ragazze. Gino se ne accorse e rimase zitto per farlo soffrire. Dopo un poco però disse: "L'anno scorso eravamo andati a piedi fino alla spiaggia. Avevamo fatto il viaggio in due. Trasportavamo lattine di birra. La spiaggia era piena di gente e di ragazze, ragazze abbronzate con il seno nudo. Il Capitano si illuminava ogni volta che ne vedeva una. Non voleva più andarsene, sembrava un ragazzino". "Davvero!" disse Renzo sottovoce. Gino scosse il capo in segno d'assenso. "E poi cosa è successo?" "Cosa vuoi che sia successo! Siamo tornati alla barca. E al ritorno il Capitano non la smetteva di parlare. Parlava della sua vita, delle sue donne". "Ne ha avute tante?" "Bah, non ricordo, qualcuna". Smisero di discorrere. Gino tirò fuori la scusa di voler dormire. Renzo cercò di immaginarsi il Capitano sulla spiaggia. Si voltò ancora a guardarlo. Era lì, come prima, con quell'aria sognante. Forse pensava alle ragazze abbronzate che camminano ondeggiando sulla spiaggia. 8 - Piero Gajf uri
racconti italiani Renzo mise in bocca una sigaretta e si alzò in piedi. Subito il Capitano gli gridò: "Vieni al timone!" Lo raggiunse camminando sul bordo della chialla per non urtare le angurie. "Tutto bene?" chiese il Capitano. "Sì, adesso tocca a lei mangiare". "Sicuro, ma sta venendo su brutto tempo". Da sotto la visiera il Capitano fissò una porzione di cielo che si stava rabbuiando. "Va beh" disse, passandosi una mano tra la peluria bianca del petto, e con passo sicuro guadagnò la prua. Renzo si appoggiò al bordo di poppa tenendo fermo il timone sotto un'ascella. Dovevano scendere il fiume fin quasi al mare per scaricare le angurie. Ci sono una quantità di banchetti che vendono frutta sulle strade intorno al mare. Lavorava ormai da due settimane e avevano sempre trasportato angurie ma era senz'altro meglio che caricare copertoni d'auto o cose del genere. Pensò al porto canale, a come se l'era immaginato il giorno prima di cominciare il lavoro. Non credeva che esistesse un porto in una città di terraferma. Quando era passato davanti ai capannoni aveva sentito un odore di fabbrica. L'odore del porto è diverso, vi si riconoscono gli odori del legno, del ferro e dell'acqua salata. Aveva visto le barche, il tratto di canale artificiale con le banchine. La chiatta del Capitano era la più piccola e la più vecchia. li padre di Renzo non voleva che navigasse sul fiume, per lui era un lavoro senza molte possibilità, a differenza di magazziniere o di trasportatore. Invece a Renzo piaceva navigare, anche sul fiume. Gino e il Capitano stavano coprendo le angurie con il telo impermeabile. li Capitano aveva indossato una camicia di flanella leggera. "Dai una mano" disse, riprendendo il timone. Proprio in quel momento Gino urlò: "C'è uno nel fiume!" Un uomo stava a galla nel fiume e cercava di nuotare verso il centro. li Capitano diresse la barca in quel pu1110.Quando arrivarono l'uomo chiese aiuto. Renzo si sporse quanto bastava e lo afferrò per un braccio, poi, assieme a Gino, lo tirò a bordo. Piero Gaffuri - 9
racconti italiani "Grazie" disse l'uomo; portava giacca e cravatta. "Come si sente?" chiese il Capitano, appoggiandogli una mano sulla giacca bagnata. Aveva circa trent'anni e l'aspetto di una persona per bene. · "Com'è finito nel fiume?" tornò a chiedere il Capitano. L'uomo rimase imbambolato a guardarli, disse qualcosa ma nessuno capì cosa. Avvicinò una mano al viso e restò così. Un'alga sottile gli rigava la guancia destra. Quando tolse la mano dalla faccia videro che batteva i denti. "Su!" disse il Capitano e fece segno a Renzo di portarlo a prua. / :h( ,( 7f _;- // p~\ I .->" ~- -J A prua l'uomo si sedette vicinoal cane che gli annusò le scarpe marroni. "Com'è andata veramente?" chiese Renzo. "Mi sono buttato" disse l'altro. "Perchè?" "Non è facilespiegare". Gino si toccò più volte la tempia con un dito come a dire che secondo lui quello era matto. "Provi a parlarne, forse è meglio" disse Renzo. "Non so". "Mi racconti qualcosa della sua vita, quello che vuole''. L'uomo lo guardò e si ravviò i capelli bagnati. "Cosa vuole che racconti, lavoro, faccio il rappresentante di una ditta di saponi". "Ah" disse Renzo e mise da una parte la cravatta fradicia. "Un lavoro di telefonate, telefono sempre per le ordinazioni". Intanto si era alzato il vento, aveva aperto nelle nubi degli squarci azzurri. Renzo tirò una corda a prua e appese gli abiti del rappresentante di saponi. "Va male il lavoro?" domandò, stendendo sul filo un paio di calzoni verde salvia. "No, il lavoro non c'entra". "E cosa c'è allora?" "Mi vergogno a dirlo, è così ovvio". "Si sbaglia" disse Renzo, passandogli le sigarette. li rappresentante ne prese una, se la fece accendere, poi, lanciando all'acqua un'occhiata obliqua, disse: "Gioco, gioco sempre". "Ah, per questo si è buttato". IO - Piero Gajfuri
racconti italiani "Non solo. Non so come dire, ci sono tante ragioni". "E quali?" "Ieri sera tornavo dal Lido con il solito motoscafo. Beh, non era più sera, ormai era mattina, saranno state le sei. C'erano quelli di sempre. lo avevo perso un milione, altri molto di più". "Cristo! Chissà come si sentiva". "Da cani, ma non per il milione, piuttosto per qualcosa che non so descrivere. Sul motoscafo c'erano anche quelli che avevano vinto, come ogni volta. Ieri pensavo alla mia vita, a mia moglie che se n'è andata due anni fa, a tutte le cose spiacevoli che mi sono capitate". Il rappresentante parlava con un tono di voce stanco e uniforme, faceva compassione, in mutande e canottiera. Il sole di luglio gli asciugava addosso la biancheria avvolgendolo di vapore. ' "Cosa pensa di fare?" domandò Renzo. "Non lo so - disse quello - ma voglio parlare ancora del battello". Si accese un'altra sigaretta prendendola dal pacchetto di Renzo. "C'era un tedesco grasso e bianco di capelli. Ogni tanto rideva. Rideva rumorosamente. Non so se avesse vinto o perso, ricordo la risata. Gli sedeva accanto una signora che doveva essere ubriaca. L'ho vista alzarsi due volte per vomitare. Quando si sporgeva dal bordo del motoscafo il tedesco le metteva una mano sulla schiena". "Che viaggio!" disse Renzo ma l'altro non gli diede retta. "Uno, seduto di fronte a me, voleva invitarmi a bere. Aveva vinto e continuava a ripetere che era stato fortunato. Raccontava di certi suoi giri in Portogallo e in altri posti che non so; facevo finta di ascoltare. Guardavo la ragazza che gli stava a fianco. Era una bella ragazza e dormiva. Con la testa sfiorava la sua giacca bianca lasciando tracce di rossetto". Smise di raccontare e si volse a guardare la prua che tagliava l'acqua. Allungò una mano e tastò i suoi calzoni stesi sul filo, erano umidi. "Questa è una bella barca - disse - proprio riposante". "Eh sì" disse Renzo. Il rappresentante lo guardò e sorrise imbarazzato. "Non avete qualcosa che possa mettermi?". Gli trovarono dei calzoncini di tela un poco unti di grasso. Li indossò con sollievo e accese ancora una sigaretta. "È il capo quello?" domandò, indicando il Capitano. Il barcone virò per infilarsi in un canale laterale. A metà canale già si intravvedeva il punto di scalo delle angurie. "Siamo arrivati" disse Gino. Il rappresentante seguitò a fumare tranquillo. La chiatta si avvicinò alle banchine e il Capitano salutò con un cenno un gruppetto di gente. Un uomo piccolo e grasso si staccò dal gruppo e urlò qualche parola. Da lontano sembrava un uomo allegro. Quando la barca toccò riva fu il primo ad arrivare. Subito puntò l'indice in direzione del rappresentante di saponi. "Banana - gridò - che ci fai su questa barca?" Il rappresentante arrossi e gettò in acqua la sigaretta. "Sono sicuro - proseguì l'uomo - che vi ha raccontato le solite storie, Banana è un campione in fatto di frottole". Banana abbassò gli occhi e si voltò a guardare i riflessi del pomeriggio sul fiume. Piero Gaff uri - 11
raccontiitaliani - giovani Piero Gaffuri il nemico La casa del popolo di Via Beccaria è la più grande della città. Ha sei stanze, tre servono per riunioni, le altre fanno parte del circolo ricreativo. Ma a renderla unica nel suo genere è l'osteria che occupa quasi un terzo dei locali. C'è la sala con il bancone dei vini e dei liquori e fuori un grande pergolato con i tavolini e il campo delle bocce. La gente va spesso a bersi un bicchiere e a fare la partita a briscola o a scopa. Nella tarda primavera e d'estate stanno tutti all'aperto, la sera è difficile trovare un tavolino libero. In un pomeriggio di maggio, particolarmente ventoso, Paolo Veronese entrò nella sala del bar e si diresse verso il banco. L'uomo del bar lo salutò con un sorriso. "Senti - chiese Paolo - hai visto il compagno Alvise?". "Si è fuori". Si fece versare un bianco, poi uscì sotto il pergolato. Alvise stava giocando a carte. "Paolo - gridò come lo vide - vieni qui a sederti!". Alvise era un vecchio militante. Aveva settantasei anni ma la sua vivacità era passata indenne attraverso la guerra di Spagna, la resistenza e infinite traversie. Strinse la mano a Paolo e lo presentò al suo compagno di gioco. "È Paolo Veronese. Un dirigente del partito, responsabile della commissione cultura e direttore del giornale della federazione. Un intellettuale". L'altro salutò e disse di averlo già visto. Alvise propose di giocare ancora una volta perché poi doveva parlare con Paolo. li vento scuoteva la giovane vite americana e spazzava il campo di bocce. Alvise fissava le carte, ordinandole a seconda della loro importanza. Aveva capelli radi e bianchi e due grandi orecchie un po' schiacciate. Mostrava sempre la sua prima tessera del '22, la rigirava tra le mani grosse e gialle. Dopo le carte rimasero soli. Alvise guardò Paolo con i suoi occhi azzurri da vecchio. "Ma cosa succede? In giro dicono che sei stato deferito. Sai cosa penso della commissione di controllo, no? Quattro vecchi impiegati". "Sì, non è andata giù quella mia affermazione sulla linea del partito. L'articolo sul giornale ha scatenato un pandemonio. Volevo solo aprire un dibattito". "Adesso devi stare attento. La leggedel partito è semplice. Tra compagni si può discutere ma se le critiche diventano pubbliche è diverso. Ti conviene non 12 - Piero Gaffuri
racconti italiani parlare troppo delle tue posizioni, quelle che prima erano semplici perplessità ora potrebbero sembrare altrettanti attacchi al partito". "Devo stare zillo?" "Segui il mio consiglio" "Il problema è che ho bisogno di molti amici e non ne ho tanti". "Va là! Sei stimato, i giovani sono dalla tua parte e anche i vecchi. Invece hai bisogno di qualcuno che ti consigli bene. Non basto io". Alvise tirò fuori le nazionali senza filtro, ne accese una con un vecchio accendino placcato in oro. Socchiuse gli occhi dando due tirate. Paolo bevve un goccio di vino e disse: "Non avrei mai pensato di essere deferito, evidentemente non aspellavano altro". "Eh - disse Alvise - che tu non fossi simpatico a molti lì dell'organico erarisaputo. Ma al massimo possono farti un richiamo. Va là, per questa scemenza". "E nella mia sezione cosa si dice?". "Siamo con te. Che partito è se non si può discutere. Poi lutti questi cambiamenti di rotta. lo non dico che l'Unione Sovietica deve essere un modello ma pensare che lo sia l'America! Il partito è in crisi, per superarla bisogna partecipare e discutere". Paolo sorrise e guardò l'ora. Doveva tornare a casa perché Elena usciva adesso dallo studio. Alvise si lasciò andare a due colpi di tosse e mandò una maledizione al vento. Poi disse: "Sai cosa dovresti fare! Andare a trovare il professore, il professor Ermini. Lo conosci?". "Di persona no, ma ne ho sentito parlare". "Ecco, lui ti può dare dei buoni consigli. È un vero intellettuale, lo frequentavo molto una volta. Vai, che ti può servire". "Si tiene un po' in disparte ... ". "Cosa importa. È vecchio e dal partito ha preso più fregature che regali". Paolo fini il vino e si alzò. Il vento gli scompigliò i capelli. "È tardi Alvise, vado". "Allora ci andrai dal professore?". "Sì, e poi sono curioso di conoscerlo". "Digli che ti mando io". "Certo - disse Paolo - e grazie di tulio". "Va là! Ce ne sono pochi di compagni come te". Lasciò Alvise sotto la vite americana e rientrò nella sala. Lo salutarono in molti. Appoggiò il bicchiere sul banco lucido del bar e uscì in strada. Elena era sdraiata sul divano e ascoltava un disco. Teneva vicino due cartelle di documenti. Fece un gran sorriso e si sistemò i capelli neri con un veloce gesto della mano. La canzone che ascoltava era vecchia ma appena tornata di moda. Paolo s.isedette nella poltrona di fronte e accese una sigaretta leggera. "Sono stanca" disse Elena. "Hai lavorato tanto?". "Sì, diciamo che mi sono sacrificata per lo studio". Paolo sorrise e andò a mettersi in un angolo del divano. "Tu'!" chiese Elena, guardandolo di sbieco. Piero Gaffuri - 13
racconti italiani "Mah, non molto". "Invece hai l'aria stanca". "Sono preoccupato per il partito". "Allora non è un problema, sei sempre preoccupato per il partito". "Questa volta è diverso". Elena si alzò e gli si mise seduta accanto. "Mi hanno deferito alla commissione di controllo. Una specie di tribunale interno. Ho fatto delle critiche troppo pesanti alla linea politica". Elena saltò in piedi e afferrò le sigarette. "Pazzesco! Consumi le tue serate a fare riunioni. Paghi una quota tessera altissima. Spremi il cervello per inventare una quantità di iniziative culturali. E quelli cosa ti danno in cambio? Ti deferiscono al tribunale di controllo ... ". "Commissione di controllo". "Sì, alla commissione di controllo. lo li manderei al diavolo. Che si arrangino" disse Elena e tornò a sedersi. "Fai presto tu. Dimentichi che sono un dirigente e che alle prossime elezioni avrei anche potuto essere eletto deputato". "Me lo ricordo. Ma adesso cosa pensi di fare?". "Dipende da quello che mi chiederanno. Potrebbero chiedermi di smentire l'articolo che ho scritto, di fare l'autocritica". "Lo farai?" "Bisogna vedere come si mettono le cose". Elena gli si strinse al fianco e Paolo la sentì morbida. "Non devi assolutamente rinnegare le tue idee. Non mi va. Puoi fare a meno di loro. Se non diventi deputato poco male ma non umiliarti". Paolo le sorrise e le accarezzò le labbra con il dorso della mano. "Non è solo una questione individuale, devo pensare anche al partito e ai compagni. Devo valutare bene cosa fare, c'è il rischio che poi mi penta". Elena accese la sigaretta, buttò in alto il fumo e si girò a guardare Paolo tenendo la testa un poco inclinata. "Sei cambiato. Eri più ribelle una volta. Mi piacevi quando eri più ribelle, mi facevi venire i nervi ma mi piacevi". "Ero più giovane". "Mi piacevi di più - disse lei con un sorriso ironico - quando eri giovane". Paolo guardò il riflesso della strada che danzava sul muro. Lasciò scivolare la testa sullo schienale del divano fin sulla spalla di Elena. "Sai - disse - sono andato a parlare con Alvise". "Ah, quello anziano e simpatico". "Sì. Mi ha consigliato di sentire il professor Ermini". "li mio professore di liceo!?". "Si". "E cosa c'entra?. "È comunista. Alvise dice che ha avuto delle difficoltà col partito". "Era un bravo professore". "Vedo come si mettono le cose, poi andrò a parlare con lui". ''Sono sicura - disse Elena - che ti diranno di rispettare di più la linea del partito e che finirà lì". "Speriamo". Elena baciò Paolo sulla guancia sinistra e si alzò prendendolo per mano. Cambiò disco e gli cinse il collo con le sue lunghe braccia. Paolo la strinse. Il gi14·- Piero Gaffuri
racconti italiani radischi cantò la canzone che mettevano su quando stavano soli. Il pomeriggio che si erano baciati per la prima volta ascoltavano proprio quella canzone. Elena aveva una camicia bianca e sotto il lino della camicia Paolo sentiva il cuore che batteva. Restavano delle ore sdraiati vicini nella casa vuota. Elena aveva diciassette anni e lunghi occhi verdi. Si baciavano, non facevano altro. Adesso Paolo aveva trentacinque anni e la cravatta. Ballava con la sua bella moglie che faceva l'avvocato. Teneva gli occhi chiusi. "Hai riunioni questa sera?" disse lei, spezzando l'incanto. "No, no, poi non è il caso". Quando suonò il telefono erano le otto del mattino. Paolo sentì la voce del segretario provinciale. Il segretario arrivava in federazione la mattina presto e si metteva a leggere un pacco di giornali. Desiderava parlargli, possibilmente verso mezzogiorno. Fuori pioveva, il vento aveva riempito il cielo di nubi e se n'era andato. Paolo prese la macchina, c'era un gran traffico. Entrò in federazione a mezzogiorno meno cinque. Elsa, la compagna che stava alla porta, gli sorrise. Fece le scale e saltò il suo ufficio. Nel corridoio alcuni lo salutarono, altri no. La porta del segretario era socchiusa. La spinse dolcemente. Il segretario alzò gli occhi e disse: "Paolo accomodati". Paolo non notò nulla di particolare nel tono di voce; si sedette nella sedia di fronte. "Ti ho chiamato perché sono state tante le proteste dei compagni per il tuo ultimo editoriale. Tu sai che ti ho sempre sostenuto, ma questa volta anche alcuni compagni della segreteria si sono lamentati e hanno chiesto l'intervento della commissione di controllo". Paolo si agitò sulla sedia di plastica e disse: "Quando si vuole dare il via a una discussione bisogna calcare la mano. Il guaio è che nel partito è difficile discutere". "Ma dovevi interpellare la segreteria! Hai sbagliato perché hai fatto tutto da solo, così sembra un attacco al partito". "Va bene e adesso cosa devo fare?". Il segretario si arricciò i baffi. "Scrivere una lettera al giornale locale smentendo l'interpretazione che ha dato alle tue affermazioni, poi pubblicarla sul prossimo numero di Rinnovamento. Credo proprio che basti". Paolo guardò la finestra e i vetri schizzati di pioggia. Pensò ai pochi intellettuali della città che si erano congratulati dopo l'editoriale. Per loro era uno che poteva cambiare le cose. Gli avevano anche promesso un aiuto per organizzare un convegno che avrebbe fatto parlare. Il segretario con il volto pallido, i baffi neri e l'aria disponibile stava aspettando una risposta. Aveva trovato la soluzione più semplice e accomodante. Paolo si morse il labbro e disse: "Devo pensarci, comunque entro stasera ti faccio sapere". L'altro sorrise, ma per nascondere la preoccupazione. "Mi sembra che non dovrebbero esserci problemi". "Sì, credo di sì. Ti farò sapere". "E se i compagni della segreteria mi chiedono qualcosa?" Piero Gaffuri - 15
racconti italiani "Non dire niente o dì che darò una risposta questa sera". Si alzarono e si incontrarono davanti alla porta dell'ufficio. Il segretario prese Paolo per un braccio, lo guardò fisso negli occhi. "Mi raccomando". · Paolo fece cenno di sì col capo. Prima di andare ringraziò. Nel corridoio non c'era nessuno. La strada era piena di pozzanghere e la pioggia non accennava a smettere. Paolo camminava rasente ai muri. L'aveva preso una gran tristezza perché doveva scegliere e non poteva tirarsi indietro. Aveva un impermeabile color nocciola. C'erano code di macchine che sobbalzavano verso i semafori. Pensò alla politica e al partito comunista. Gli tornò in mente la faccia felice di Alvise il giorno della grande avanzata elettorale. Era stato un momento particolare e ne aveva approfittato. Sembravano diventati tutti comunisti. Poi erano cominciate le difficoltà. Adesso evidentemente erano più utili i funzionari degli intellettuali. Se accettava di smentire l'editoriale sarebbe diventato un funzionario, come tanti. Non gli andava. Pensò anche di aver sbagliato partito, ma fu il pensiero di un attimo. Non pioveva più quel pomeriggio. Paolo Veronese stava sul portone della vecchia casa del professor Ermini. L'aveva sentito per telefono e il professore sapeva già tutto perché aveva parlato con Alvise. Paolo fece le scale ripide e larghe fino al primo piano. Guardò le due porte di legno scuro e siccome erano chiuse riprese a salire. A metà rampa sentì che intanto se n'era aperta una, allora si voltò. Vide un uomo anziano e sorridente. Aveva un paio di occhiali, la testa bianca. "Sei Paolo?" domandò. "Sì, sono io". "È qui che devi venire". Paolo ridiscese le scale di buon passo. li professore lo fece entrare e lo condusse in un piccolo studio. La casa era buia, odorava di cera e di altri profumi. Il professore era diverso da come se l'era immaginato. Si aspettava un uomo magro e sofferente, dal parlare lento e misurato. Forse l'aveva sviato una certa espressione riverente di Alvise o forse era stato solo un inganno della mente. Invece il professore aveva lo sguardo pragmatico. li suo passo non aveva nulla di solenne, pareva una ridicola corsetta. Non c'era un aspetto della sua figura che meritasse di essere notato. La stranezza stava nel fatto che viveva in una casa di stile decadente, arredata con gusto, e sembrava uno che passa per caso. Lo studio era una piccola stanza con qualche mobile antico. li tavolo occupava molto spazio e sul tavolo stavano pile di libri e riviste. La luce passando attraverso l'abatjour di una lampada liberty si tingeva di rosa. Il professore fece scintillare in quella penombra due bicchieri di gin e ghiaccio. Poi si sedette. "Che problemi ci sono?" chiese. "Penso che Alvise le abbia detto". "Paolo - disse lui con voce argentina - dammi del tu". Paolo raccontò del partito e anche di sè. li professore ascoltava con interesse. "Vedi - disse a un certo punto - anch'io mi sono trovato in una situazione simile. Avevo molti alleati, non erano comunisti ma laici, radicali. Potevo conti16 - Piero Gajfuri
racconti italiani nuare la mia battaglia con loro. Però sarei diventato un nemico del partito. Ho scelto la solitudine e la rinuncia sperando che servisse di lezione". Smise di parlare e fissò il bordo del tavolo. Paolo preferì rimanere zitto per non intaccare quel silenzio, ma poi chiese: "Allora dovrei scrivere quella lettera di smentita e non pensarci più?". Il professore alzò gli occhi. "Il partito ha delle regole che molto spesso si scontrano con le tensioni degli individui che ne fanno parte. Qualche volta chiede all'iscritto dei sacrifici, capisci cosa intendo?, e li ricompensa a modo suo. Sono come delle prove di lealtà, di fedeltà. Non sei costretto a sottoporti alle prove, come d'altraparte nessuno ti costringe a rimanere nel partito". "Ma è un criterio arretrato!" "Dici?" "Come è arretrato pensare che chi non accetta questo genere di regole è un nemico". "Forse, ma il partito non teme tanto gli uomini schierati sulle posizioni di altri partiti quanto i suoi transfughi; per esser chiari, quelli che avevano la tessera e dicono non rinnovo la tessera ma resto delle mie idee". Paolo si mise a ridere. "Sembra di parlare dell'ordine dei gesuiti". Il professore sorrise a metà e sorseggiò il gin. "Amavo il partito - aggiunse - la gente del partito, l'onestà e tante altre cose ancora. Ho solo deciso di non passare dall'altra parte. Lo rifarei. È un mondo che non merita di essere abbandonato". Paolo prese il suo bicchiere, strinse piano il vetro gelido. Vide Alvise, il suo profilo in bianco e nero, la notte che avevano attaccato i manifesti. Erano passati anni ormai. Poi il compagno Sonetto che aveva ottant'anni e non si perdeva una riunione. La compagna Maria che conosceva a memoria Marx. Riappoggiò il bicchiere sul centrino ricamato e pensò che era bella gente davvero. "Anch'io - disse - sono legato al partito, sennò non avrei avuto dubbi. Ma se faccio quella smentita perderò molti contatti in città". "Dimmi - chiese il professore - ti interessano di più i tuoi contatti o il partito?" "Tutti e due". "Eh, non si può avere tutto". "Il guaio del partito è che per non avere problemi bisogna sempre dire di sì". "Questo purtroppo qualche volta è vero". "Non qualche volta!" "Bah, esageri un po"'. Suonò il telefono. Il professore si alzò e andò a rispondere nella stanza accanto. Paolo si rovesciò sullo schienale della sedia e diede un'occhiata in giro. C'erano dei bei quadri. Vuotò il bicchiere di gin lasciando il ghiaccio sul fondo. Pensò che il professore non gli aveva detto niente di nuovo. La strada era ancora umida, le pozzanghere lambivano il marciapiede. La gente tornava dall'ufficio con lo sguardo assente. Paolo ogni tanto dava un'occhiata aì negozi. C'erano molte cose di cui aveva bisogno ma preferì guardarle soltanto. Il sole faceva luccicare il selciato fradicio della piazza. Comprò del Piero Gaffuri - 17
raccontiitaliani formaggio e sorrise di fronte alla vetrina di un profumiere. Vide la sua immagine riflessa emergere tra pile di profumi per l'estate. L'impermeabile nocciola sbottonato, poi, meno evidente, il completo grigio e la cravatta. Cercò il viso e lo trovò vicino a una crema per la pelle. · Indovinò il colore degli occhi, il naso e i baffi radi. Con lo sguardo superò il vetro e indugiò sui profumi. Decise di prendere un regalo per Elena ed entrò. Non c'era nessuno, solo il profumiere che si fece in quattro per accontentarlo. Spruzzò nell'aria profumo a piccole dosi. Quando uscì dal negozio si annusò una mano e sentì l'odore di tutti quei profumi insieme. Aveva voglia di tornare a casa ma si fermò ancora davanti a un negozio. C'erano minerali, pietre strane e qualche fossile. I fossili erano perfetti, sembravano lucidi di cera. Ricordò che quando era bambino aveva incontrato uno che li cercava. Stava tornando da una gita ed era corso avanti per arrivare primo alla macchina. Correva saltando giù per un sentiero di montagna che costeggiava un ghiaione. A un tratto udì dei rumori metallici e vide un UO!IlO a torso nudo che spaccava pietre. Vinse le timidezze e si avvicinò. L'uomo lo guardò, gli disse di stare attento alle schegge. Si asciugò il sudore con il dorso della mano. Poi lo chiamò e gli mostrò una conchiglia che sbucava da una roccia. Gli spiegò che quelle montagne tanto tempo prima erano state sotto il mare. Lui si divertiva a trovare le conchiglie di quel mare. Ne aveva tante in un sacchetto, gliene regalò una. Paolo corse via con quella piccola conchiglia, non gli importava più di arrivare primo alla macchina. Riprese a camminare e infilò una vecchia strada priva di negozi. Doveva dare una risposta al segretario entro le otto di sera. Non aveva voglia di prendere una decisione e di pensare al partito. Gli sarebbe piaciuto restare solo, senza rumori intorno. Per un attimo finse di essere ai bordi di un bosco in una notte di pioggia. La luce di una lampada filtrava tra gli alberi e il verde nero si confondeva con l'argento. Sorrise pensando che non era serio quel modo di fare. Al partito stavano aspettando una risposta. Ma forse il partito non gli interessava poi molto. Lasciò perdere il motivo perché aveva sete. Entrò nel primo bar e si fece servire un caffè amaro. L'interno del bar era sovraccarico di soprammobili e quadri. Non aveva molto senso un bar del genere in quell'angolo della città. Assomigliava a un'enoteca di un posto di villeggiatura. li padrone non doveva fare buoni affari con quel deserto. Posò lo sguardo su un piatto che stava appeso alla parete. Era un piatto bianco con delle strisce azzurre. L'avevano colpito le parole scritte sul piatto: "Je n'ai pas oublié". Rise e il caffè rimasto ballò nella tazzina. li piatto aveva ragione. L'aveva anche detto al professore: i ricordi contano molto. Se rimaneva nel partito era solo per una questione di ricordi. I compagni, la memoria collettiva di un passato. Per questo non voleva diventare un nemico. Meglio confondersi con la base, ridiscendere poco a poco i gradini saliti. 18 - Piero Gaffuri
raccontiitaliani - giovani Claudio Piersanti i due figli di Zelinda Ci eravamo trasferiti in una cittadina dell'entroterra marchigiano, distribuita come un verme tozzo su due colline della stessa altezza, a circa quattrocento metri sul livello del mare. Aria buona, bella vista: ogni giorno c'era qualcuno che ce lo faceva notare. Mio padre era ancora un giovane medico, sempre pronto a trasferirsi da una città all'altra. E mia madre era una donna che veniva considerata "moderna" perchè portava i pantaloni e faceva sedere chiunque sulle sue poltrone: anche il gatto. Venivamo da una grande città, dove non ci sentivamo diversi dagli altri. I miei fratelli erano troppo piccoli per notare delle differenze, ma io non mi trovavo bene. La casa che mio padre aveva preso in affitto era però uno splendore: cinque camere e una gran sala da pranzo. li pavimento era tutto di mattoni rossi. Veniva a passare la cera una vecchia, che si chiamava Zelinda, per anni donna delle pulizie del medico che ci aveva lasciato la casa. Era così vecchia che mio padre non voleva tenerla. Non perchè fosse poco capace, nei lavori domestici, era anzi molto brava, ma suscitava in noi tutti un profondo senso di colpa. "Lavoro come una giovane" disse lei scongiurandolo di farla lavorare, almeno per qualche ora. Mio padre, un po' controvoglia, accettò. E lei continuò a pulire la casa "come una camera operatoria". Era contenta quando mio padre le faceva questa battuta, quasi sorrideva. Dico "quasi" perché Zelinda non era allegra. Nell'aspetto, prima di tutto. Era alta, asciutta, e gli occhi erano così imploranti che neppure i bambini la prendevano in giro. E si che di appigli ne offriva parecchi! Zelinda vestiva esclusivamente di nero, lunghi e modesti abiti antichi. Anche le scarpe erano di un'altra epoca, e lei ne aveva la massima cura. Quando doveva attraversare la cittadina per venire da noi, preferiva costeggiare le mura per evitare il corso e la piazza. I pochi che incontrava non li guardava in faccia, soltanto quando incrociava me o i miei fratelli più piccoli agitava la mano, cercava di prenderci in braccio e si commuoveva. In una tasca della gonna portava sempre delle caramelle alla menta che non ci piacevano. Non mancava mai di dirci che dovevamo godercela, quell' "aria buona", e ci indicava le colline dai colori pastello che circondavano le nostre due. I primi tempi quella distesa di colline mi dava l'impressione di trovarmi in mezzo a un mare in tempesta. Già da allora i miei compagni raccontavano una strana storia a proposito di Zelinda. Secondo loro non abitava da sola nella casetta che il marito le aveva lasciato tanti anni prima. In quella casetta, circondata da un corridoio di giardino, si nascondeva suo figlio, tornato matro dalla guerra. A sentir loro Zelinda aveva un secondo figlio, matto anche lui e rinchiuso in un manicomio di Roma. lo non ci credevo. Ma qualcosa Claudio Piersanti - 19
racconti italiani di vero doveva esserci. Quando andai a vedere quella casetta, nel borgo più povero, costruito alla base della colline del Municipio, lei non sembrò contenta di vedermi. Stava uscendo di casa, e si affrettò a chiudere l'uscio e il cancello, con numerose mandate di chiave. Mi prese per mano e affrontò la salita che portava alla piazza con una foga per lei inusitata. Aveva lo sguardo particolarmente umido e commosso, e ripeteva che ero "bello e buono, tanto buono". Tutti nella mia famiglia, secondo lei, avevano queste qualità. Quando parlava mi stringeva più forte con le sue dita lunghe e ossute, dalla pelle così sottile e lesa che mi provocava un profondo disagio. Non saprei dire meglio perché. Saliti fino in piazza ebbi un bel daffare per staccarmi da lei: voleva assolutamente offrirmi la pizza, o regalarmi cinquecento lire. I miei compagni, seduti sul giardino del Municipio, sotto l'orologio, mi indicavano e ridevano. Li raggiunsi e dissi una bugia di cui ancora mi vergogno. Giurai di aver visto, attraverso la finestra, la faccia di matto del figlio di Zelinda. Nessuno dubitò della veridicità di quel che dicevo. Un ragazzo più grande, che era uscito dal bar lì di fianco e si era portato dietro un bicchiere di amaro col ghiaccio, disse che anche lui lo aveva visto, anni prima, dietro la rete di recinzione del campo di calcio. Aveva intravisto anche Zelinda, poco più in là, nascosta dietro gli spogliatoi. Quando ne parlai a mia madre lei mi disse seccamente di non fare il pettegolo. "Povera donna" disse di Zelinda, "non puoi immaginare quanto soffre". Zelinda e la sofferenza, quella sofferenza cupa che vedevo in televisione, divennero per me un binomio inscindibile. Anche perché cominciarono a capitarle sempre più strani incidenti. Si presentava spesso in casa esibendo qualche fasciatura. "Sono caduta al mercato" spiegava senza prendersela troppo. Oppure diceva: "Mi sono tagliata facendo la 'legna". E tanti altri incidenti di questo tipo. Mio padre cercò di visitarla, ma lei non ne volle mai sapere. Diceva che erano cosa da nulla e poteva benissimo curarsi da sè. Riusciva a dare l'impressione di avere in fondo scansato un pericolo maggiore e di essere per questo, una volta tanto, di buon umore. Faceva i suoi rari sorrisi, quando raccontava degli incidenti, e si dava dei colpetti sulle ginocchia per prendersi in giro. Aveva pochi denti da mostrare in un sorriso, e una lunga lingua da uccello. Le sue spiegazioni convinsero fino a un certo punto. Fino a quando, per la prima volta, mancò l'appuntamento della cera. Venne soltanto il giorno dopo. Le aprii io la porta, e rimasi di stucco. li lato destro del volto, per quanto cercasse di nasconderlo con fazzoletto, era tutto un livido. Non disse niente a mia madre e si infilò nel bagno di servizio, dove si mise a strizzare gli stracci. Mia madre la raggiunse poco dopo perché sentiva che piangeva. La fece sedere su una poltrona e le versò un marsala all'uovo, nella speranza di farla riprendere. Zelinda si teneva il viso nascosto col fazzoletto, piangeva scossa da brividi che mettevano paura e non parlava, e non voleva neppure bere il marsala. Mia madre si sedette sul bracciolo, accanto a lei, e aspettò che le passasse senza assillarla con inutili domande. Ogni tanto le staccava una mano dal volto e gliela stringeva tra le sue. Poche volte mi è capitato di veder piangere così a lungo, e mai una persona di quell'età. Mi sistemai in un angolo della stanza e restai a guardarla rosicchiandomi le unghie. Ammetto che la curiosità aveva la sua parte, ma era quella curiosità bacata che ci spinge a guardare le cose più tristi anche quando sappiamo che ci faranno male. Ricordo che Zelinda disse: "Quante cose brutte, signora mia". Ma di quali "cose" si trattava non lo disse. Sembrava si riferisse a un concetto così generalmente noto da non avere alcun bisogno di fare degli esempi. Mia madre, 20 - Claudio Piersanri
racconti italiani del resto, annuiva senza riserve. Passò più d'un'ora tra pianti e affermazioni lapidarie. Fui sicuro che la crisi era passata quando Zelinda si mise a fare i suoi soliti complimenti sulla nostra famiglia e si decise a bere un sorso di marsala. Tornai a giocare, con l'incarico di passare prima in ospedale per avvertire mio padre di quel che succedeva. A due passi dall'ospedale c'era la chiesa, maestosa, tutta di mattoni. Di pomeriggio giocavamo a calcio sul piazzale di fronte, perché il campo era occupato dai grandi. Se pioveva potevamo usare alcune salelle della parrocchia, dove trovavamo, ben allineati, tre vecchi biliardi e un traballante tavolo da ping-pong. li prete che si occupava di quei giochi si chiamava don Giuseppe, e mi sembrava simpatico perché aveva una Vespa nuova di zecca e sapeva giocare a calcio. Quel pomeriggio trovai i miei compagni imbronciati. Il pallone era finito sul tetto, e don Giuseppe doveva partire per un'estrema unzione. Ci spostammo in gruppo verso la piazza e giocammo a lanciare le monete contro un muro. Persi presto tutte quelle che avevo e misi anch'io il broncio. Quando vidi don Giuseppe sulla sua Vespa gli corsi incontro, per farmi dare le chiavi dei biliardi. Lui rallentò e rispose: "Sempre sia lodato". Ma anziché fermarsi innestò la prima per affrontare la salita che portava in chiesa. "Porto Nostro Signore" spiegò sorridendo e impostando con cura la curva stretta. Ecco cos'era il rigonfiamento che aveva sul petto, il contenitore delle ostie. li suo sorriso mi colpì molto, in fondo tornava da un'estrema unzione. Stabilii che la serenità doveva derivargli dalla consapevolezza di aver svolto una missione importante, come la mia tristezza derivava dall'aver dilapidato tutta la paga settimanale. Di Zelinda mi ero dimenticato. Mi tornò in mente verso sera, quando ero già in ritardo per la cena. Arrivai a casa con la busta del pane, preso a credito, che nessuno mi aveva chiesto ma che sapevo avrebbe addolcito i rimproveri di mia madre. Appena notai, vicino al portone, la Vespa di don Giuseppe, mi resi conto che del pane non c'era più bisogno. Infatti in casa avevano altro a cui pensare. Mia madre mi spinse via dalla sala, dove stavano tutti attorno a Zelinda, ma se ne tornò subito dagli altri lasciandomi curiosare. "Mi dispiace" diceva mio padre col tono di ripetere. "Devo avvertire i carabinieri, non posso prendermi questa responsabilità". Don Giuseppe si teneva il mento tra il pollice e l'indice e quando mio padre giunse sulla soglia gli fece cenno di aspettare. Intanto Zelinda mandava un suo ritornello: "È tanto buono, se ve lo dico io che è tanto buono ... " Mia madre faceva del suo meglio per tranquillizzarla, ma Zelinda aveva occhi e orecchie soltanto per mio padre, rimasto fermo sulla soglia con l'espressione più severa che gli conoscevo: il viso leggermente in avanti e gli occhi neri fissi sul suo interlocutore. "Se Zelinda non vuole denunciare l'accaduto" disse il giovane sacerdote "non possiamo costringerla a farlo". Zelinda (aveva fatto chiamare lei don Giuseppe) non si curava neppure di lui, come avesse chiamato il suo avvocato anziché il prete. li giudice, cioè mio padre, alzò le braccia e tenne le mani spalancate per diversi secondi. "D'accordo" disse. "La responsabilità però se la prende lei". La vecchia corse verso mio padre, gli catturò le mani e gliele baciò ripetutamente. Aveva le guance lucide di laccrirne, ma sembrava felice, ora. Non è un lieto fine, questo, perché Zelinda aveva ottenuto di continuare a farsi picchiare da quel figlio misterioso. Misterioso, venni a sapere, soltanto per noi ragazzi. Gli adulti della cittadina sapevano che esisteva, ma pur essendo tutti pettegoli non ne parlavano volentieri. Avevano rispetto, per !'.elinda, o pietà, se si vuole. li più ricco della cittadina, un vecchio elegantissimo che la conosceva da sempre, si levava il cappello quando la incontraClaudio Piersanti - 21
raccontiitaliani va per strada. E Zelinda si inchinava, stringendosi timorosa i gomiti tra le mani. Zelinda però aveva una sorpresa in serbo per tutti. Esattamente un anno dopo, una domenica d'estate, la famiglia di Zelinda fu al centro dell'attenzione generale. li mattino aveva piovuto, e poco prima di pranzo, con un bell'arcobaleno tra i colli, tornò il sole. La passeggiata lungo il corso era salva. L'arcobaleno mi aveva fatto venir voglia di un ghiacciolo, che credo si chiamasse appunto "arcobaleno'', per via dei suoi diversi strati di gusti. Pioveva ancora qualche goccia e fui tra i primi a attraversare la piazza. Nel bar centrale, dove avevano quel gelato, c'erano soltanto due uomini che giocavano a scopa. Quando uscii, sorbendo il mio ghiacciolo, non pioveva più, e sulle scale del municipio si erano già radunati molti dei miei amici. Nel giro di pochi minuti tutte le famiglie erano rappresentate nel corso, dove la folla fluiva lentamente sui marciapiedi. C'era un certo ordine, in queste passeggiate, da un lato si saliva, dall'altro si scendeva. Per questo una presenza straniera anziché confondersi si imponeva con maggiore risalto del solito. Dalla parte del borgo vecchio salirono, tenendosi a braccetto, due buffe figure. Erano un uomo e una donna, ben paffuti, entrambi sulla quarantina. Diedero subito nell'occhio per i loro abiti. Lei aveva un soprabito rosso, abbottonato a stento, lui un doppio petto grigio, dal taglio antiquato, che doveva essere stato per anni in fondo a un baule, dove aveva preso strane pieghe. L'uomo portava, con la mano libera, un grosso ombrello e una sportina di plastica. Che fosse il figlio di Zelinda, quel singolare barbuto, dovettero dirmelo gli altri, anche se ci sarei arrivato da solo un attimo dopo. "C'è anche la madre" disse qualcuno. Zelinda li seguiva a un centinaio di metri, insieme a don Giuseppe, che doveva aver corso dopo la Messa per esser lì a quell'ora. Se molti riuscirono a non guardare troppo fissamente le figure nere della vecchia e del prete, non poterono far finta di niente con l'altra coppia. Del resto, l'uomo con doppiopetto e la sua amica col soprabito rosso, attraversata la piazza, cercavano di passeggiare sul marciapiede sbagliato, dove tutti andavano nella direzione opposta alla loro. Erano imbambolati, sorridevano, ma non a qualcuno, era come fossero soli davanti a un sereno panorama di montagna. Il progetto di don Giuseppe era trasparente. Quei figli nascosti dovevano essere presentati alla città, e meglio tutto d'un colpo visto che l'impatto sarebbe stato duro comunque. Quella stessa domenica il segreto di Zelinda fu interamente svelato. li suo secondo figlio, che doveva essere ricoverato a Roma, era in realtà una figlia, oligofrenica dalla nascita, e lei la teneva con sé da trent'anni, senza che nessuno se ne fosse mai accorto. Continuo ancora a chiedermi come riuscisse, Zelinda, a conservare un segreto così importante. Neppure riesco a spiegarmi, come non riuscii allora, se a Zelinda era toccata la parte della "buona" o quella della "cattiva". È sicuro che non si era mai fidata veramente di qualcuno, aveva fatto da sola quel che poteva. Soltanto quando cominciò a sentirsi troppo vecchia e non riusciva più a difendersi dal figlio si era decisa a passare le consegne per tempo. Pochi mesi dopo Zelinda morì, in casa sua. Accompagnai i miei genitori nella loro visita, e mia madre mi chiamò dentro perché non faceva paura vederla. Era appena più pallida del solito, ma la sua espressione era tranquilla. "Riposa" disse mia madre. I figli erano già stati portati via e messi in un ospizio del Nord. Ricordo quello che disse mio padre quando uscimmo dalla casetta di Zelinda. "Bisogna avere fortuna, quando si nasce". Non avevo mai sospettato, prima, il significato profondo della parola "fortuna". 22 - Claudio Piersami
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==