...... r .... ■ - ...... ~ .... • ... ■ ~"' ... - ... ■ ~"' ... - tranno. esimersi dal dare risposta. Vuol o non vuole. il PSI mantenere fede al patto con gli elettori di garantire la governabilità del Paese? Ha o non ha concreti programmi di governo per giustificare la crisi aperta, la collocazione politica occupata, le pretese e il ruolo di garante della stabilità politica di questo Paese? Se il Comitato centrale non saprà dare una risposta a questi interrogativi, il futuro del PSI è quello di andare alla deriva; e con esso, forse, l'VIII legislatura repubblicana. Gianni Finocchiaro PACE E GUERRA Tutto e il contrario J; lr,ffn "" i-ua-a-v UN CUMULO DI FRASI FATte, di banalità e di vuota retorica: questa, e solo questa, è l'impressione che si ricava da una prima lettura del numero I di «Pace e guerra» (il mensile diretto da Castellina, Napoleoni e Rodotà), e che una lettura più attenta non solo conferma ma aggrava. La retorica si coglie già nel titolo del mensile. Perché «Pace e guerra»? Perché - spiega un ampolloso quanto oscuro preambolo - «da tempo è esplosa l'epoca della permanente rivoluzione» (non, si badi, della «rivoluzione permanente», che saprebbe troppo di Trotskij, il cui ultrasinistrismo va sì propinato, ma a dosi omeopatiche); sicché «l'umanistico Elogio della pace non è più ripetibile», e «pace e guerra ritornano sempre, e inscindibili»; ma se la pace è solo apparente, neppure il conflitto è assoluto... E così via. Si tratta, come ognun vede, di parole in libertà. L'unica cosa chiara di questo preambolo - che al ragionamento chiaro e pacato sostituisce il turgore del sentimento e il gusto barocco delle immagini troppo sofisticate - è 8 DISEGNO DI U.G. SATHO che il nuovo mensile «indica l'alzo necessario del tiro, inogni analisi, in ogni pratica». In che cosa consiste «l'alzo necessario del tiro» è presto detto. I compilatori di «Pace e guerra» (che raccoglie elementi della sinistra comunista, esponenti del PdUP-Manifesto e nostalgici del '68) ritengono che sia urgente ricostruire l'unità della sinistra «intorno a un programma comune di transizione, come unica risposta possibile alla gravità della crisi della società e dello Stato•. L'alzo del tiro, la transizione: sono, naturalmente, solo e soltanto parole, alle quali non corrispondono dei contenuti e delle indicazioni politiche precise. Anzi, i compilatori di «Pace e guerra» non possono non prendere atto del fatto che la sinistra oggi «verifica, paradossalmente ancor più dall'opposizione che nella maggioranza, quanto siano ormai carenti le sue tradizionali categorie di analisi, generiche e frammentarie le sue proposte programmatiche, insufficienti i suoi strumenti organizzativi e i moduli del suo lavoro di massa». Dunque, si direbbe, la sinistra attraversa una grave crisi, che investe tutto il suo modo d'essere e non ne risparmia alcun aspetto. Da ciò dovrebbe ragionevolmente discendere che il compito più urgente, per chi milita a sinistra, è quello di rimettere in discussione e ripensare un po' tutto. Invece, la conclusione che ne ricavano gli scrittori di «Pace e guerra» è tutt'altra: l'alzo necessario del tiro, la transizione, il nuovo modello di sviluppo. Transizione verso che cosa è difficile dire, dato che l"idea stessa di socialismo (per non parlare dei vari «socialismi reali») attraversa oggi una crisi storica, che impone un radicale ripensamento di metodi e contenuti. Ma tant'è. Parole e formule hanno per taluni un potere davvero magico. E tuttavia sarebbe ingiusto affermare che la lettura di «Pace e guerra» non riserba sorprese. Infatti, dopo molti sproloqui sull'alzo del tiro, sulla transizione, sul nuovo modello di sviluppo, sulla necessità di non cedere più al ricatto dei «due tempi» (prima la politica dell'emergenza, poi le riforme), ecc., a un certo punto veniamo a sapere (a pag. 5) che «il tessuto economico del paese è sottoposto a processi degenerativi che ne minacciano gravemente le capacità di tenuta», che «occorre bloccare questi processi degenerativi, soprattutto smantellando la economia assistita, superando quella sommersa e avviando una ripresa di aumento dell'occupazione in forme non improduttive», e che «questa operazione deve essere condotta in termini tali da ottenere un ripristino di correttezza nel funzionamento dell'economia capitalistica»! Occorre dunque abbandonare l"assistenzialismo e ritornare al capitalismo. Noi non abbiamo nulla da ridire su questa impostazione del problema (anche se è evidente che essa mette in discussione molte responsabilità, dei sindacati e delle forze politiche), e anzi la sottoscriviamo interamente. Ma come essa possa conciliarsi con «l"alzo necessario del tiro» e con la «transizione», solo Dio lo sa. Una contraddizione così catastrofica nella linea sostenuta dalla rivista è però indice non solo di scarso amore per la logica, ma anche di scarsa serietà intellettuale e politica. 25 MARZO /980
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