Il Leviatano - anno II - n. 11 - 25 marzo 1980

hanno devastato tutte le condizioni esterne incui sono obbligate a svolgersi tutte le attività imprenditoriali oneste e serie. E comprensibile che un'organizzazione, specialmente di questo tipo, non possa essere responsabile della condotta di tutti i suoi aderenti. Ma il fatto che essa sia strutturata in un modo che al suo interno non possa ingaggiarsi apertamente alcuna lotta di linee che permetta di sceverare il grano dal loglio, di emarginare o isolare moralmente o operativamente quelle forze che degradano irrimediabilmen-, te la credibilità e l'immagine dell'impresa privata: questo fatto è altrettanto grave e criticabile quanto quello che il sindacato dei lavoratori non riesca ad espungere dal proprio seno i veleni che ho rammentato poco sopra. C'è infine l'atteggiamento verso l'evoluzione politica del paese. Dopo il 1975si è potuto intravedere nel vertice confindustriale un certo disgusto per i metodi che la DC aveva da un pezzo adottato nella gestiol)e della politica economica e finanziaria, e risentimento per i danni che essi avevano prodotto a tutti i livelli al 'sistema imprenditoriale: sottrazione del risparmio alle imprese a beneficio di un settore pubblico sempre più spendaccione e malformato, etc. Nel 1976questi umori ebbero l'occasione di trasformarsi da mugugni ed eleganti allusioni in prassi politica, nel rafforzamento di possibili correttivi sia al malgoverno democristiano che alla sclerosi partitocratica dominante. Bisognava appoggiare l'alleanza_iaicache, se estesa su scala nazionale, avrebbe costitùito un fatto nuovo di grande portata, capace di travolgere le gelosie, sclerosi e miopie degli stati maggiori dei tre partiti interessati, che impedivano e tuttora impediscono a questi di esplicare in pieno le loro potenzialità di alternativa alla DC. Di coloro che più avrebbero potuto contribuire all'esperimento. chi mantenne un aristocratico distacco, chi si fece agevolmente convincere da La Malfa e Saragat a non intralciare i loro piani lungimiranti, chi si lasciò strumentalizzare dai vecchi apparati. Una diaspora, per paura del rischio (ma che rischio poi?). Il naufragio del tentativo entrista-tecnocratico di Umberto Agnelli fra i parlamentari DC è l'indice più significativo degli effetti fallimentari della rinunzia di allora ad uscire dal.le strategie puramente adattive. Dopo di che non restavano che queste davanti ai metodi di governi consociativi del triennio dell'emergenza. Circa questi metodi non sono mancate all'inizio notazioni severamente critiche del Dott. Carli. Il PCI, egli osservava, è diventato sempre più influente nella politica economica dei governi, inalberando molti impegni, quasi neoliberisti, di razionalizzazione. Ma con quali risultati? Ad essi «non seguono affatto, sul piano operativo. comportamenti coerenti: al contrario l'area dei prezzi amministrati continua ad allargarsi e ad intricarsi in funzione di parametri sempre più complessi, attraverso i quali si vorrebbe uno stato di giustizia sociale per via amministrativa; le imprese dissestate e inefficienti continuano ad essere protette e mantenute in vita a danno di quelle sane ed efficienti: il profitto continua ad essere colpito come espressione di egoismo; il posto di lavoro continua ad essere considerato non per la sua produttività economica, ma in quanto assicura uno stipendio al lavoratore e alla sua famiglia». Osservazioni ineccepibili. Ed infatti in seguito non è mancata la polemica del PCI contro i «rigurgiti neoliberisti» promossi dalla Confindustria, sebbene, al di là di queste schermaglie, invalesse intanto la prassi che ad ogni manifestazione confindustriale di qualche rilievo venissero ascoltati anche gli esperti 6 comunisti. Finché le elezioni del 1979chiarirono che il popolo italiano respingeva la strategia del PCI, e crearono una situazione che avrebbe potuto rendere molto più facile debellarla. Invece proprio dopo il giugno del 1979 si è avuta la sensazione che il Presidente della Confindustria si fosse convertito all'idea che fosse ormai inevitabile imbarcare il PCI nel governo, o almeno (e sarebbe tutto dire!) alla tattica andreottiana. Stando a notizie attendibilissime provenienti dall'interno della Confindustria e riferite anche da L'Europeo, questa sua inclinazione ha portato recentemente a scontri duri al suo vertice. Che cosa abbia indotto a questa svolta è difficile dire. Ma assai più misterioso è come si possa ragionevolmente pensare che l'apporto del PCI alleato con la DC (e la loro azione congiunta) possa ristabilire le condizioni che l'impresa privata considera più propizie al proprio funzionamento, sopravvivenza, espansione, etc. Con la sua storia, la sua cultura, la sua struttura il PCI non si propone certo di smantellare il gigantesco sistema di capitalismo di Stato, di patrocini politici e di rigidità corporative edificate negli ultimi 12 anni. Esso vuole invece affiancarsi senza scosse ai suoi vecchi registi, in attesa delle occasioni propizie per soppiantali. Pensare il contrario è analfabetismo politico. A meno che tutto non sia fatto per facilitare un atteggiamento più cooperativo del PCI verso le richieste d'aiuto statale diretto o indiretto ad importanti branche dell'industria privata, come quella automobilistica, ridotte a malpartito dall'epopea sindacale del decennio trascorso. In questo caso vorrebbe dire che pro tempore et subiecto il deprecato statalismo non appare così abominevole. Quanto al PCI figuriamoci se si lascia sfuggire occasioni d'oro come questa per aumentare la sua presa. Non vi sono fronti invero in cui si possa dire che la Confindustria abbia raccolto successi. Singolare situazione quella dell'imprenditorialità privata italiana negli ultimi anni. Anche dopo il 1976,anni disastrosi per molti aspetti. essa ha spiegato un·ammirevole vitalità, creatività, innovatività, etc. quale forza sociale ed economica: testimoni i dati del 1979 sulla crescita del reddito e delle esportazioni. Invece la sua situazione rispetto a tutte le forze avverse di carattere politico non è certo migliorata. Credo che tanta parte di questo arretramento sia imputabile agli sbagli strategici del suo vertice descritti in questo articolo. Per usare una formula compendiaria direi che essi consistono nell'aver cercato di adattarsi alle combinazioni di poteri sempre più impotenti e caoticamente dissociati che costituiscono i governi italiani, nell'averne in fondo accettato le ottiche e le regole, nel non aver rischiato nulla per cambiarle o infrangerle, nell'aver abusato di quegli espedienti volpini che già Pareto indicava come il vizio suicida dei plutocrati. Sarebbe stupido descrivere per filo e per segno quale poteva essere l'alternativa. Certo fattori essenziali di una diversa strategia avrebbero dovuto essere un rapporto non paternalistico e obliquo con la base e uno sforzo di definire il proprio ruolo in modo meno compromissiorio, e se occorre più conflittuale. Ma sono stati forse evitati i conflitti? No, ed anzi li si è dovuti accettare sul terreno scelto dall'avversario. Così la massa dell'imprenditorialità italiana è una forza priva di reale coordinamento culturale e politico, senza momenti unificanti in positivo, senza leadership che la rispecchi. Forse in futuro riuscirà ad avere al suo vertice una visione politica più lucida. ma non vedo come possa superare le ragioni organiche della sua crisi di ruolo senza una riforma delle sue strutture interne. 25 MARZO /981)

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