EDITORIALE L 'ecumenicomunismo LA MASSIMA ASPIRAZIONE IN POLITICA estera dei dirigenti del Partito comunista italiano sarebbe di riuscire ad essere amici di tutti e nemici di nessuno. Amici dei russi, naturalmente, ma anche amici dei cinesi; amici dei gollisti e amici degli americani; amici dei «movimenti di liberazione» di tutti i generi e di tutte le ispirazioni e amici dei dirigenti dei Paesi del terzo mondo contro cui molti di questi stessi movimenti sono diretti; amici dei palestinesi e amici di Israele. Un'aspirazione lodevole ma, si converrà, un poco irrealistica. La «coesistenza pacifica» e la «distensione» nascono dalla cognizione del fatto che, in una epoca in cui una guerra generalizzata sarebbe combattuta con armi nucleari, con il rischio di un'ecatombe di dimensioni apocalittiche, i conflitti internazionali dovrebbero essere risolti attraverso le trattative, gli accordi pacifici;in un quadro di equilibrio mondiale, di pazienza e 2 comprensione degli interessi vitali altrui, di autolimitazione di esige!}Ze rivendicazioni. Nei punti più caldi e controversi, l'accordo può consistere, in alcuni casi, nel ricorrere all'opera di mediatori o nell'affidarsi a fattori relativamente «oggettivi», come il principio di nazionalità, il risultato di libere elezioni, ecc. Ma un conto è proporsi la soluzione pacifica dei conflitti esistenti, cosa d'altra parte, come insegnano i trentacinque anni del dopoguerra, non certo scontata, un altro conto è ritenere che il mondo sia entrato in un'epoca di fraterna amicizia tra popoli e Stati. E fuori discussione, per esempio, che Stati Uniti e Unione Sovietica sono potenze in conflitto inconciliabile. All'opposto per quanto riguarda il loro modo di vita, le loro istituzioni, i loro valori fondamentali, dotate ciascuna della terrificante capacità di distruzione pressoché totale dell'altra, esse non possono né combattersi per 25 MARZO /98()
assicurarsi l'egemonia sulla scena mondiale, né però accordarsi in una spartizione stabile e perenne. Un mondo di quattro miliardi e mezzo di esseri umani divisi in centinaia di popoli e Stati, in cui una minoranza gode di un relativo benessere e una stragrande maggioranza vive ancora nella miseria, in cui esistono forme di sostanziale schiavitù accanto a civiltà fondate sul lavoro libero, pervaso da ideologie e religioni medioevali accanto a isole di mentalità scientifica e liberale, un mondo di questo genere vedrà i suoi equilibri continuamente turbati, rimessi in discussione, capovolti: e ogni mutamento di regime, ogni rivolta nazionale, ogni rivoluzione sociale si traduce in un vantaggio per una parte e in uno svantaggio per l'altra, altera l'equilibrio raggiunto, richiede una nuova, difficile, ricomposizione. Altrettanto evidente è che, almeno per un lungo periodo, insanabile appare il conflitto tra Cina e URSS. Una frontiera controversa di più di seimila chilometri, territori vasti quanto un continente rivendicati dall'una e dall'altra parte, il timore russo del crescere d'un potente nemico che ne completi l'accerchiamento e quello cinese di vedere a propria volta consolidarsi un'Indocina filosovietica, l'aspirazione della Cina a un ruolo mondiale che rispetti il suo peso demografico e la sua vastità territoriale, tutto lascia ritenere che il conflitto tra le due maggiori potenze comuniste non sia componibile: e non è certo per caso che, pur avendo attraversato rivolgimenti interni di vaste proporzioni, dalla rivoluzione culturale, al predominio di Lin Biao, alla «banda dei quattro», al ritorno di Deng Xiaoping, alla demaoizzazione, la Cina ha mantenuto un unico punto fermo: l'ostilità nei riguardi dell'Unione Sovietica. USA e URSS hanno dunque interessi sostanzialmente opposti, anche se di volta in volta parzialmente componibili in un modus vivendi; URSS e Cina sono tra loro nelJe stesse condizioni; e si potrebbe aggiungere anche che, in uno sguardo più vasto, USA e Cina, nonostante il riavvicinamento delJ'ultimo decennio, restano anch'esse potenze i cui interessi divergono e la cui composizione parziale e relativa richiede le stesse tecniche e le stesse procedure «coesistenziali». In questo contesto il Partito comunista italiano, tanto per far riferimento agli avvenimenti degli ultimi giorni, contraddittoriamente annuncia la visita del suo segretario generale a Pechino, vota una mozione filo-atlantica, dichiara il proprio sostegno alla linea «tiepida» di Giscard e Schmidt, manifesta un permanente legame con l'URSS, dando ampie assicurazioni a Mosca che il viaggio di Berlinguer «non è diretto contro nessuno altro o altri partiti comunisti ed operai, sia in qualche modo inimichevole verso altro o altri paesi socialisti e movimenti di liberazione» e dividendosi nel voto al parlamento, con un buon terzo dei deputati su posizioni filo-sovietiche. IL LEVIATANO Certo, l'invito a Berlinguer - che testimonia anche di una più sapiente e aperta politica estera da parte della Cina, alla ricerca di interlocutori nelle ali meno ortodosse del campo avverso (si pensi anche ai timidi gesti di disponibilità nei confronti dei Paesi dell'est europeo, di cui ha riferito Jiri Pelikan in un'intervista sul numero 3/ 1980del Leviatano) -è un segno positivo, più importante di quanto non sia lo strumentale voto sulla mozione di politica estera proposta dal governo. l'anticamera di una effettiva autonomia che non potrebbe non essere sgradita a Mosca. (Stupisce che Eugenio Scalfari, tanto attento alle «svolte» immaginarie nella collocazione internazionale del PCI, questa volta non si sia accorto di niente). Un passo nella giusta direzione, dunque. Anche se ci sembra di poter predire - senza preconcetti - che difficilmente al primo passo seguiranno clamorosi sviluppi. Il PCI presuppone infatti, nell'andare a Pechino, che esista ancora, nonostante «diversità», «contrasti», «polemiche», una realtà chiamata «movimento operaio e rivoluzionario nel suo insieme», che a una rottura possa seguire una ricomposizione della famiglia comunista. Sembra cioè, paradossalmente per un partito in fama di pragmatismo, essere proprio il PCI a privilegiare la comunanza ideologica tra comunisti alla realtà dei conflitti nazionali e statuali. Ma se «contatti», «scambi di esperienze», «ricerca di convergenze» sono possibili, soprattutto con un partito come quello italiano apparentemente distaccato dagli aspetti più beceri ed aggressivi della politica del Cremlino, sembra difficile credere che, per stabilire un effettivo legame, i cinesi non chiedano al PCI una sostanziale rottura del rapporto privilegiato che ancora lo lega a Mosca. Una rottura che i comunisti italiani, da tanti anni, sembrano sempre voler finalmente compiere, ma dalla quale puntualmente finiscono per ritrarsi nei momenti cruciali. In realtà la sua storia, la composizione della sua classe dirigente, il sentimento della base, probabilmente anche un incombente ricatto di scissione teleguidata, rendono molto difficile, se non impossibile, un'effettiva autonomia del PCI da Mosca. Diplomazia accorta e abili escamotage non cambiano la realtà con cui il PCI deve fare i conti: il voto della settimana scorsa alla Camera è un drammatico avvertimento sui rischi cui il PCI andrebbe incontro se Berlinguer volesse fare il passo più lungo della gamba. j
ECONOMIA La Confindustritl di corte di GIUSEPPE ARE CnE cosA STAACCADENDO AL VERTICE DELla Confindustria? Da un paio di mesi esso è indaffaratissimo a trovare un successore al suo attuale presidente, il Doti. Carli. Ma, sebbene il termine per la designazione sia da un pezzo scaduto, l'impresa è ancora in alto mare. Molti autorevoli personaggi sono stati via via proposti e poi scartati, uno perché di non completo gradimento delle molte correnti che esistono anche in via dell'Astronomia, un altro perché non consonante con le alchimie di cui sembra ci fosse un gran bisogno, un altro ancora perché si è ritratto da sé, timoroso di bruciarsi senza costrutto. Intanto i comitati ristretti delegati a scegliere continuano le loro complicate consultazioni e trattative interne. Una crisi insomma lunga, tortuosa e oscura, del tutto simile a quelle governative a cui ci hanno assuefatto negli anni settanta. Per una organizzazione che ha sempre criticato l'inconcludenza della classe politica da un punto di vista efficientistico non c'è male! Resta da sapere se questa impasse ha qualche importanza dal punto di vista della più generale storia nazionale, o se è una delle tante sterili beghe di corte ~he imperversano a Roma. Insomma potremmo anche chiudere la Confindustria senza danno, come proponeva beffardamente Scalfari qualche settimana fa? O invece quanto avviene ai suoi vertici è il riflesso di una reale crisi culturale e politica di tutta la diffusa imprenditorialità privata italiana? Possibile che questa, nella misura in cui si raccoglie e si riconosce nella Confederazione sia così perplessa e sbandata sulla linea politica da seguire? Di questo problema non ci si può evidentemente disinteressare come si potrebbe invece delle cospirazioni e intrighi di corte. È probabile che gli intrighi e le perversioni dello stato spartitorio abbiano coinvolto adattivamente anche parte dell'imprenditorialità media e piccola, considerata giustamente più sana di quella grande. Ed è abbastanza noto anche da recenti inchieste che essa è piuttosto frazionata politicamente. Ma è certo che quanto avviene ai vertici non è affatto il riflesso di uno scontro o anche contrasto di tendenze fra i novantamila imprenditori che aderiscono alla Confindustria. La struttura di questa, frammentata, stratificata e burocratica non apre nessun canale attraverso cui una qualunque visione politica possa proporsi agli aderenti. misurare i consensi che vi raccoglie e. fondandosi su questi, procurarsi una rappresentanza capace di influenzare o determinare i processi decisionali del vertice. Non è più vero come dieci anni fa che gli ·imprenditori sono universalmente alieni da espliciti dibattiti politici. In questi ultimi anni il loro interesse per i problemi extraziendali è cresciuto enormemente ed essi hanno cercato di sfamarlo come meglio potevano. Ma non meno di prima essi. in quanto base, sono stati accuratamente esclusi da ogni coinvolgimento nelle controversie e nelle scelte politiche che pure avvenivano nel chiuso dei vertici confindustriali. La crisi attuale non è dunque il riflesso di contrasti di tendenza che agitino la base imprenditoriale. È invece il riflesso degli insuccessi del vertice stesso, derivati dal modo in cui esso ha impostato i rapporti con le forze sociali e politiche del paese, dal vuoto in cui hanno finito per trovarsi sospesi la maggior parte dei suoi assunti e delle sue scommesse sulla realtà e l'evoluzione di queste. Il profano potrebbe meravigliarsi che questa crisi sia esplosa proprio dopo anni dominati prima da una presidenza sommamente carismatica e poi da una raffinatamente intellettuale. Non è proprio in questi anni che si è, con eloquenza senza precedenti, asserita la centralità dell'impresa, rivendicata la sua autonomia. denunciati i lacci e laccioli che la intralciano, esortato a tener fede alle regole del mercato, esaltata la vocazione liberale, progressiva, europea, occidentale dell'imprenditoria italiana, e via VIITOR/0 MERLONI CANDIDATO ALLA PRESIDENZA DELLA CONFINDUSTRIA 25 MARZO 1980
enumerando? Sarebbe ingiusto dire che si è trattato di puro orpello. Ma bisogna riconoscere che «non con parole si mantengono gli stati•! Bastava questo nuovo lustro propagandistico e culturale per combattere con successo le tendenze degenerative che si sono consolidate nell'economia e nella politica economica italiana? Qual'è stato l'atteggiamento reale verso i principali fattori di esse? L'attuazione pratica di questa ineccepibile deontologia avrebbe richiesto intanto un atteggiamento diverso verso i sindacati confederali. La Confindustria negli ultimi anni ha fatto di tutto per legittimarli come gli unici interlocutori non solo reali ma possibili, nella speranza di consolidarne la rappresentatività e l'influenza sulla loro base, in modo da poter contare sui loro impegni per quanto riguarda i comportamenti delle varie categorie. Per questo scopo essa ha pagato conti salatissimi, in tutti i contratti nazionali, accondiscendendo a una sequenza di richieste che erano in stridente contrasto con tutti le professioni di fede liberista e antinflazionista contenute nei documenti e discorsi programmatici. Così nell'accordo sull'unificazione del punto di contingenza del 1975,fieramente e giustamente avversato da La Malfa. Così via via fino all'accordo sui metalmeccanici della primavera scorsa. Sempre si è trattato di concessioni non volute dalla massa degli imprenditori. che però non venivano consultati (ecome avrebbero potuto esserlo?). ma sollecitate dalle pressioni della maggiore impresa privata italiana. che aveva le sue idee sul come gestire le relazioni industriali in Italia. Ma con quali risultati? I fautori di questo approccio forse iscriverebbero a loro attivo la «linea del1' Eur». le ramanzine di Lama agli esagitati della FLM e una certa quantità li e quantitativi sono fossilizzati dal 1%8 da accordi burocratici di vertice; che per questo era ed è sempre più contestato da gran parte dei suoi aderenti; che, anche per questo, era sempre più sfidato dall'esterno in molti importanti settori dai sindacati autonomi. L'accreditamento era dato a un sindacato che nelle sue strutture interne è tuttora il meno democratico fra quelli delle democrazie industriali; nel quale decisioni di enorme rilievo per i suoi associati e per il paese sono prese in alto e poi ratificate assemblearmente, senza la fondamentale garanzia democratica consistente altrove nella consultazione preventiva della base a voto segreto; che è ancora l'unica grande realtà del paese che si sottrae, e non proprio con educate argomentazioni ma col ricatto della forza, al dovere di dare un assetto costituzionalmente giustificabile all'enorme potere di fatto di cui si è impadronito. Su molti di questi punti che investono direttamente la funzione e la legittimità del sindacato la Confindustria, pro bono pacis, non si è mai pronunciata; su altri lo ha fatto in modo tiepido, generico, occasionale. Mai una battaglia di principio. Neppure su una questione a ben vedere cruciale per qualificare la sua di proclamazioni di ragio- VITTORIO MERLONI E GUIDO CARLI nevolezza: cioè un contristessa rappresentatività: quella della sovrapposizione dei contratti aziendali a quelli nazionali di categoria e della situazione di totale anomia che ne nasce per il nostro sistema di relazioni industriali. Tutto ciò è stato un tentativo di pacificazione perseguito oltre tutte le smentite dei fatti? O era fatto con la cinica riserva mentale che quanto si concedeva da un lato si sarebbe recuperato dal1'altro con l'aumento dei prezzi? Parlare di un partito dell'inflazione in termini demoniaci come fa Amendola è forse sbagliato. Ma certo l'inflazione è stata accettata implicitamente dalla buto a quella ridda di formule vuote che ingombrano la scena politica italiana. Non potrebbero seriamente annoverare comportamenti concreti nella vita delle aziende. Non vi è un solo imprenditore fra ledecine recentemente intervistati da I/ Giornale che abbia potuto segnalare una svolta, o anche solo una coerente e durevole mitigazione dell'atteggiamento sindacale per quanto riguarda la flessibilità del lavoro, l'impulso alla produttività, la lotta decisa alla disaffezione e alla sprofessionalizzazione, l'ostilità alle forme più avanzate e civili della democrazia industriale, la gravezza delle cosiddette piattaforme integrative aziendali, etc. Del resto se tutte le statistiche che la stessa Confindustria pubblica sul calo di produttività e di competitività rispetto ai concorrenti esteri hanno un senso, esse significano soltanto questo: che anche per questo verso lo sforzo di istituzionalizzazione e addomesticamento della triplice sindacale è fallito. Le concessioni e accondiscendenze erano fatte a un sindacato che nella più benevola delle ipotesi non garantiva affatto del comportamento reale della sua base e anzi dei suoi stessi organi settoriali o periferici. Un sindacato i cui rapporti interni in termini strutturaIL LEVIATANO Confindustria come la linea di minore resistenza per sottrarsi almeno a una parte delle difficoltà che l'attanagliavano, invece di impostare una battaglia di ruolo che costringesse tutti a mettere le carte in tavola e chiarisse le responsabilità delle parti nelle distorsioni economiche che andavano ingigantendosi. Il secondo fronte su cui la Confindustria è uscita in fondo perdente dalle vicende dell'ultimo lustro è stato quello del comportamento della classe che rappresentava. Essa condannava l'incessante sforzo della classe politica di infeudarsi la libera impresa, di distorcerne la natura e gli scopi organici. sì da rendersela docile strumento della propria volontà di tutela, controllo e manipolazione della società civile. E certo la grande maggioranza dell'imprenditorialità non aveva e non cercava l'occasione di contaminarsi con questi impuri contatti, anzi viveva in aspra frizione quotidiana con i guasti che la partitocrazia spargeva a piene mani sul suo cammino. Ma non tutta viveva da casta Susanna. Facevano pur parte del fronte imprenditoriale privato quegli avventurieri che hanno speculato su questa perversione del sistema politico, che vi si sono amalgamati simbioticamente, creando mostri che 5 ..
hanno devastato tutte le condizioni esterne incui sono obbligate a svolgersi tutte le attività imprenditoriali oneste e serie. E comprensibile che un'organizzazione, specialmente di questo tipo, non possa essere responsabile della condotta di tutti i suoi aderenti. Ma il fatto che essa sia strutturata in un modo che al suo interno non possa ingaggiarsi apertamente alcuna lotta di linee che permetta di sceverare il grano dal loglio, di emarginare o isolare moralmente o operativamente quelle forze che degradano irrimediabilmen-, te la credibilità e l'immagine dell'impresa privata: questo fatto è altrettanto grave e criticabile quanto quello che il sindacato dei lavoratori non riesca ad espungere dal proprio seno i veleni che ho rammentato poco sopra. C'è infine l'atteggiamento verso l'evoluzione politica del paese. Dopo il 1975si è potuto intravedere nel vertice confindustriale un certo disgusto per i metodi che la DC aveva da un pezzo adottato nella gestiol)e della politica economica e finanziaria, e risentimento per i danni che essi avevano prodotto a tutti i livelli al 'sistema imprenditoriale: sottrazione del risparmio alle imprese a beneficio di un settore pubblico sempre più spendaccione e malformato, etc. Nel 1976questi umori ebbero l'occasione di trasformarsi da mugugni ed eleganti allusioni in prassi politica, nel rafforzamento di possibili correttivi sia al malgoverno democristiano che alla sclerosi partitocratica dominante. Bisognava appoggiare l'alleanza_iaicache, se estesa su scala nazionale, avrebbe costitùito un fatto nuovo di grande portata, capace di travolgere le gelosie, sclerosi e miopie degli stati maggiori dei tre partiti interessati, che impedivano e tuttora impediscono a questi di esplicare in pieno le loro potenzialità di alternativa alla DC. Di coloro che più avrebbero potuto contribuire all'esperimento. chi mantenne un aristocratico distacco, chi si fece agevolmente convincere da La Malfa e Saragat a non intralciare i loro piani lungimiranti, chi si lasciò strumentalizzare dai vecchi apparati. Una diaspora, per paura del rischio (ma che rischio poi?). Il naufragio del tentativo entrista-tecnocratico di Umberto Agnelli fra i parlamentari DC è l'indice più significativo degli effetti fallimentari della rinunzia di allora ad uscire dal.le strategie puramente adattive. Dopo di che non restavano che queste davanti ai metodi di governi consociativi del triennio dell'emergenza. Circa questi metodi non sono mancate all'inizio notazioni severamente critiche del Dott. Carli. Il PCI, egli osservava, è diventato sempre più influente nella politica economica dei governi, inalberando molti impegni, quasi neoliberisti, di razionalizzazione. Ma con quali risultati? Ad essi «non seguono affatto, sul piano operativo. comportamenti coerenti: al contrario l'area dei prezzi amministrati continua ad allargarsi e ad intricarsi in funzione di parametri sempre più complessi, attraverso i quali si vorrebbe uno stato di giustizia sociale per via amministrativa; le imprese dissestate e inefficienti continuano ad essere protette e mantenute in vita a danno di quelle sane ed efficienti: il profitto continua ad essere colpito come espressione di egoismo; il posto di lavoro continua ad essere considerato non per la sua produttività economica, ma in quanto assicura uno stipendio al lavoratore e alla sua famiglia». Osservazioni ineccepibili. Ed infatti in seguito non è mancata la polemica del PCI contro i «rigurgiti neoliberisti» promossi dalla Confindustria, sebbene, al di là di queste schermaglie, invalesse intanto la prassi che ad ogni manifestazione confindustriale di qualche rilievo venissero ascoltati anche gli esperti 6 comunisti. Finché le elezioni del 1979chiarirono che il popolo italiano respingeva la strategia del PCI, e crearono una situazione che avrebbe potuto rendere molto più facile debellarla. Invece proprio dopo il giugno del 1979 si è avuta la sensazione che il Presidente della Confindustria si fosse convertito all'idea che fosse ormai inevitabile imbarcare il PCI nel governo, o almeno (e sarebbe tutto dire!) alla tattica andreottiana. Stando a notizie attendibilissime provenienti dall'interno della Confindustria e riferite anche da L'Europeo, questa sua inclinazione ha portato recentemente a scontri duri al suo vertice. Che cosa abbia indotto a questa svolta è difficile dire. Ma assai più misterioso è come si possa ragionevolmente pensare che l'apporto del PCI alleato con la DC (e la loro azione congiunta) possa ristabilire le condizioni che l'impresa privata considera più propizie al proprio funzionamento, sopravvivenza, espansione, etc. Con la sua storia, la sua cultura, la sua struttura il PCI non si propone certo di smantellare il gigantesco sistema di capitalismo di Stato, di patrocini politici e di rigidità corporative edificate negli ultimi 12 anni. Esso vuole invece affiancarsi senza scosse ai suoi vecchi registi, in attesa delle occasioni propizie per soppiantali. Pensare il contrario è analfabetismo politico. A meno che tutto non sia fatto per facilitare un atteggiamento più cooperativo del PCI verso le richieste d'aiuto statale diretto o indiretto ad importanti branche dell'industria privata, come quella automobilistica, ridotte a malpartito dall'epopea sindacale del decennio trascorso. In questo caso vorrebbe dire che pro tempore et subiecto il deprecato statalismo non appare così abominevole. Quanto al PCI figuriamoci se si lascia sfuggire occasioni d'oro come questa per aumentare la sua presa. Non vi sono fronti invero in cui si possa dire che la Confindustria abbia raccolto successi. Singolare situazione quella dell'imprenditorialità privata italiana negli ultimi anni. Anche dopo il 1976,anni disastrosi per molti aspetti. essa ha spiegato un·ammirevole vitalità, creatività, innovatività, etc. quale forza sociale ed economica: testimoni i dati del 1979 sulla crescita del reddito e delle esportazioni. Invece la sua situazione rispetto a tutte le forze avverse di carattere politico non è certo migliorata. Credo che tanta parte di questo arretramento sia imputabile agli sbagli strategici del suo vertice descritti in questo articolo. Per usare una formula compendiaria direi che essi consistono nell'aver cercato di adattarsi alle combinazioni di poteri sempre più impotenti e caoticamente dissociati che costituiscono i governi italiani, nell'averne in fondo accettato le ottiche e le regole, nel non aver rischiato nulla per cambiarle o infrangerle, nell'aver abusato di quegli espedienti volpini che già Pareto indicava come il vizio suicida dei plutocrati. Sarebbe stupido descrivere per filo e per segno quale poteva essere l'alternativa. Certo fattori essenziali di una diversa strategia avrebbero dovuto essere un rapporto non paternalistico e obliquo con la base e uno sforzo di definire il proprio ruolo in modo meno compromissiorio, e se occorre più conflittuale. Ma sono stati forse evitati i conflitti? No, ed anzi li si è dovuti accettare sul terreno scelto dall'avversario. Così la massa dell'imprenditorialità italiana è una forza priva di reale coordinamento culturale e politico, senza momenti unificanti in positivo, senza leadership che la rispecchi. Forse in futuro riuscirà ad avere al suo vertice una visione politica più lucida. ma non vedo come possa superare le ragioni organiche della sua crisi di ruolo senza una riforma delle sue strutture interne. 25 MARZO /981)
■IIUl._.11!! .. IIUI■ - ■n ■ ~fin■ ; SOCIALISTI Aspettando Godot NoNOSTANTE LE INCOErenze e le contraddizioni, il PSI torna ad essere, nel bene e nel male, al centro dell'attenzione politica del Paese. Purtroppo gli ultimi avvenimenti indicano che nel bene certamente non è. Un tempo era moda civettuola sostenere che era una caratteristica tipica della DC scaricare sul Paese le sue contraddizioni e le sue crisi interne. Da alcuni mesi, pare che essa si sia trasferita nel PSI i cui giovani e mediocri dirigenti giocano alla politica come se giocassero alla roulette. Talché le lacerazioni interne, che sembravano accantonate per far posto ad un più sereno confronto, appaiono onnai le cose più comprensibili di ogni gesto e Ji ogni atto l'Qli!ico del PSI di questi ultimi mesi. La bomba lanciata, con le sue dimissioni da presidente del Comitato centrale, da Riccardo Lombardi fra le gambe di Craxi. impegnate in un lieve e vorticoso balletto diretto ad evitare la caduta del governo Cossiga senza una adeguata preparazione alla sua successione, seppur improvvisa, non era del tutto imprevedibile. Certo, era difficile, anche se non impossibile, l'instaurazione di un minimo di fair play tra il «tedesco• lombardo e il •saraceno• di Sicilia (e la cosa più curiosa è che entrambi sono oriundi siciliani), considerate le condizioni in cui avvenne l'elezione di Lombardi alla presidenza del Comitato centrale. Intanto va rilevato che la lettera di dimissioni del presidente del PSI ha riportato il dissenso interno socialista a quel «centrale• che avevamo già segnalato (v. n. 9 de li Leviatano) giacché, malgrado il tentativo di buttarla nel politico, essa è un atto d'accusa contro la «gestione autocratica• che ha escluso «il presidente anche dalla conoscenza integrale e tempestiva dei propositi e delle iniziative•, oltre che «dagli ordinari strumenti IL LEVIATANO RICCARDO LOMBARDI per accedervi• talché la sua funzione poteva essere scambiata per «l'avallo a comportamenti anormali e a "guerre private" condotte abusivamente a nome del partito ... Condizioni che sono, purtroppo, quelle realmente esistenti•. Queste sono le parole scritte da Lombardi a denuncia di rapporti, se non rozzi, certamente poco sinceri, financo sul piano umano, fra i dirigenti di questo importante, e un tempo fraterno, partito. Ed esse vanno credute per quel che dicono, dato l'uomo, a cui va riconosciuta una profonda onestà intellettuale e morale, anche nelle sue tesi più inaccettabili. A meno che il PSI non sia caduto tanto in basso da rendere ogni gesto dei suoi dirigenti un gratuito atto di doppiezza. Se, infatti. le interpretazioni, anche se interessate, di ■IIUl._.11!! .. IIUI■ - ■n ■ ~nn■ quei commentatori che hanno considerato le dimissioni di Lombardi finalizzate esclusivamente all'apertura immediata, e senza nuove proposte, della crisi del governo Cossiga, fossero vere, non resta da dire che nel PSI vi è ormai una quinta colonna il cui scopo è quello di rendere sempre più confusa la sua politica e di parlare per conto e interesse del Partito comunista alle cui esortazioni ubbidisce. Giunti a questo punto il dibattito nella riunione della Direzione del PSI, ilgiorno dopo delle dimissioni di Lombardi, ha confuso ancor più le cose, poiché la discussione politica si è svolta su due linee inconciliabili: una, sostenuta dalla sinistra, che esclude comunque la partecipazione del PSI ad un nuovo governo e l'altra che parla di «alternanza•, avanzando, fra le righe, la candidatura del PSI alla presidenza del Consiglio escludendo, però, il pentapartito e, in particolare, la presenza del PSDI e del PLI. Entrambi le tesi sembrano talmente contraddittorie che l'unico cornm~!!!() po~sibiie resta quello di numerosi politologi secondo i quali la confusione nel PSI è al massimo del comprensibile. Non si capisce infatti che senso abbia la proposta di far cadere il governo di Cossiga, escludendo in pari tempo la partecipazione del PSI ad un successivo governo. Per far gestire le elezioni regionali ai soli democristiani? O per creare un governo identico a quello caduto chiamando «governo ponte• il «governo di tregua•? Né. d'altra parte, si capisce come il PSI possa reclamare la presidenza del Consiglio escludendo in pari tempo il pentapartito. E a nome di chi parlerebbe un presidente socialista? Dei laici all'opposizione? Ed escludendo la partecipazione del PSDI e del PLI, conte potrebbe chiedere la presidenza del Consi• glio e il governo paritario? Con il 13% del PSI e del PR1 messi insieme, dinanzi al 38% della DC? Ciò detto, non resta che augu• rarci che il Comitato centrale del PSI riunitosi il 20/21 marzo riesca una buona volta a dipanare la matassa socialista. Comunque la si esprima o la si articoli in più interrogativi, una soltanto è la domanda cui in definitiva i dirigenti socialisti non po7
...... r .... ■ - ...... ~ .... • ... ■ ~"' ... - ... ■ ~"' ... - tranno. esimersi dal dare risposta. Vuol o non vuole. il PSI mantenere fede al patto con gli elettori di garantire la governabilità del Paese? Ha o non ha concreti programmi di governo per giustificare la crisi aperta, la collocazione politica occupata, le pretese e il ruolo di garante della stabilità politica di questo Paese? Se il Comitato centrale non saprà dare una risposta a questi interrogativi, il futuro del PSI è quello di andare alla deriva; e con esso, forse, l'VIII legislatura repubblicana. Gianni Finocchiaro PACE E GUERRA Tutto e il contrario J; lr,ffn "" i-ua-a-v UN CUMULO DI FRASI FATte, di banalità e di vuota retorica: questa, e solo questa, è l'impressione che si ricava da una prima lettura del numero I di «Pace e guerra» (il mensile diretto da Castellina, Napoleoni e Rodotà), e che una lettura più attenta non solo conferma ma aggrava. La retorica si coglie già nel titolo del mensile. Perché «Pace e guerra»? Perché - spiega un ampolloso quanto oscuro preambolo - «da tempo è esplosa l'epoca della permanente rivoluzione» (non, si badi, della «rivoluzione permanente», che saprebbe troppo di Trotskij, il cui ultrasinistrismo va sì propinato, ma a dosi omeopatiche); sicché «l'umanistico Elogio della pace non è più ripetibile», e «pace e guerra ritornano sempre, e inscindibili»; ma se la pace è solo apparente, neppure il conflitto è assoluto... E così via. Si tratta, come ognun vede, di parole in libertà. L'unica cosa chiara di questo preambolo - che al ragionamento chiaro e pacato sostituisce il turgore del sentimento e il gusto barocco delle immagini troppo sofisticate - è 8 DISEGNO DI U.G. SATHO che il nuovo mensile «indica l'alzo necessario del tiro, inogni analisi, in ogni pratica». In che cosa consiste «l'alzo necessario del tiro» è presto detto. I compilatori di «Pace e guerra» (che raccoglie elementi della sinistra comunista, esponenti del PdUP-Manifesto e nostalgici del '68) ritengono che sia urgente ricostruire l'unità della sinistra «intorno a un programma comune di transizione, come unica risposta possibile alla gravità della crisi della società e dello Stato•. L'alzo del tiro, la transizione: sono, naturalmente, solo e soltanto parole, alle quali non corrispondono dei contenuti e delle indicazioni politiche precise. Anzi, i compilatori di «Pace e guerra» non possono non prendere atto del fatto che la sinistra oggi «verifica, paradossalmente ancor più dall'opposizione che nella maggioranza, quanto siano ormai carenti le sue tradizionali categorie di analisi, generiche e frammentarie le sue proposte programmatiche, insufficienti i suoi strumenti organizzativi e i moduli del suo lavoro di massa». Dunque, si direbbe, la sinistra attraversa una grave crisi, che investe tutto il suo modo d'essere e non ne risparmia alcun aspetto. Da ciò dovrebbe ragionevolmente discendere che il compito più urgente, per chi milita a sinistra, è quello di rimettere in discussione e ripensare un po' tutto. Invece, la conclusione che ne ricavano gli scrittori di «Pace e guerra» è tutt'altra: l'alzo necessario del tiro, la transizione, il nuovo modello di sviluppo. Transizione verso che cosa è difficile dire, dato che l"idea stessa di socialismo (per non parlare dei vari «socialismi reali») attraversa oggi una crisi storica, che impone un radicale ripensamento di metodi e contenuti. Ma tant'è. Parole e formule hanno per taluni un potere davvero magico. E tuttavia sarebbe ingiusto affermare che la lettura di «Pace e guerra» non riserba sorprese. Infatti, dopo molti sproloqui sull'alzo del tiro, sulla transizione, sul nuovo modello di sviluppo, sulla necessità di non cedere più al ricatto dei «due tempi» (prima la politica dell'emergenza, poi le riforme), ecc., a un certo punto veniamo a sapere (a pag. 5) che «il tessuto economico del paese è sottoposto a processi degenerativi che ne minacciano gravemente le capacità di tenuta», che «occorre bloccare questi processi degenerativi, soprattutto smantellando la economia assistita, superando quella sommersa e avviando una ripresa di aumento dell'occupazione in forme non improduttive», e che «questa operazione deve essere condotta in termini tali da ottenere un ripristino di correttezza nel funzionamento dell'economia capitalistica»! Occorre dunque abbandonare l"assistenzialismo e ritornare al capitalismo. Noi non abbiamo nulla da ridire su questa impostazione del problema (anche se è evidente che essa mette in discussione molte responsabilità, dei sindacati e delle forze politiche), e anzi la sottoscriviamo interamente. Ma come essa possa conciliarsi con «l"alzo necessario del tiro» e con la «transizione», solo Dio lo sa. Una contraddizione così catastrofica nella linea sostenuta dalla rivista è però indice non solo di scarso amore per la logica, ma anche di scarsa serietà intellettuale e politica. 25 MARZO /980
......... r.- ..... ■ - ■ ..... ._.r.- ..... ■ • .,. • lliiiiii ■'.,.. - • .,. • lliiì ■'.,.. - Le sorprese, d'altro canto, non finiscono qui. «Pace e guerra• di tutto può essere accusato, ma non di atteggiamento acritico o apologetico verso il «socialismo reale»; del resto, alcuni dei suoi scrittori hanno sperimentato in prima persona in passato il flagello dello stalinismo e la tragedia del legame di ferro con l'URSS. Senonché a un certo punto, in un commento al recente congresso democristiano, esprimendo disappunto per la sua conclusione ma soddisfazione per la forza del cartello delle sinistre, l'articolista scrive: «Se, ad esempio, nel 1948 una minoranza del quaranta per cento si fosse opposta alla linea della crociata anticomunista, tutta la vicenda italiana avrebbe forse preso strade diverse». Già. E se il Partito comunista non fosse stato allora un partito infeudato a Stalin e allo stalinismo, se nel 1956non avesse inneggiato all'Armata Rossa che stroncava nel sangue la rivoluzione ungherese, quali strade avrebbe seguito la vicenda italiana? I direttori di «Pace e guerra• vorranno ammettere che, dopotutto, la domanda ha una sua legittimità. Si potrebbe continuare, ma non sarebbe molto utile. In realtà «Pace e guerra» (forse in omaggio al proprio titolo) contiene tutto e il contrario di tutto. Sotto questo profilo è certo un bell'esempio di atteggiamento problematico, non dogmatico, aperto, pluralistico, ecc. Senonché, quello che lo compromette e lo guasta è il ghigno estremistico che lo percorre ~a IL LEVIATANO LUCIO MAGRI cima a fondo, una sorta di fervore scomposto tipico di chi sta per accendere la miccia e dar fuoco alle polveri. Si veda a questo proposito, in penultima pagina, l'articolo di tal Giovanni Cominelli sul '68. È una lettura istruttiva. Il '68 viene celebrato con toni ditirambici, perché pose all'ordine del giorno la questione del potere, perché si presentò non più come movimento sociale di supporto, ma come soggetto politico organizzabile solo in una prospettiva di rotture radicali, e ciò senza passare attraverso la mediazione diretta· del partito, anzi rifiutandola e mettendola in crisi. Trascinato dal ·J?athos, l'articolista ammette: •E qui che vanno cercate anche le radici del marxismo armato. Se è vero che come progetto politico (sic) esso nasce dopo, come risposta alla grande rottura, la sua cultura politica, le sue categorie vanno ricercate nel grande disordine, nello stato di crisi che il pensiero del movimento operaio attraversa già nel '68». Si tratta di un'ammissione grave (e giusta), che dovrebbe indurre a moderare l'entusiasmo sessantottesco. Ma l'autore non arretra per così poco: «Solo i pusilli - egli dice - se ne potrebbero scandalizzare». Già-cari Napoleoni, Rodotàe Castellina-perché scandalizzarsene? Giuseppe Betkschi ......... r.- ..... ■ ii.,. ii lliiì■'.,.ii PROPOSTE La mimosa di Stato L ,INTERO DIRETTIVO DEL gruppo parlamentare socialista ha presentato giorni fa alla camera un pacchetto di proposte di legge in materia di diritti civili che riguardano la condizione della donna nell'attuale legislazione. In sostanza, pili che di leggi exnovo si tratta per i socialisti di modificare alcuni passaggi di diverse leggi attualmente in vigore, come quella sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, l'aborto. Lo scopo che si propongono i parlamentari socialisti è quello di tutelare meglio la donna quand'essa si viene a trovare in situazioni diffi9
■.a-.rlll!!ll.a■ _ ■.a-.rlll!!ll.a■ ... ■ ........ - ... ■ ........ - ciii; quali la separazione dal coniuge, il riconoscimento di figli naturali, l'istituto del 'adozione oppure l'aborto. All'on. Maria Magnani Noya, prima firmataria delle otto proposte di legge, abbiamo chiesto di commentare i passaggi più significativi de/l'intero pacchetto: Con l'attuale normativa si devupdtatt dnq• anni dopo la 9ep11111zlone per ~nere U dlvonlo. Voi on proponete di ridUJ'ff q- laseo di tempo a d• anni. Perché? Cinque anni sono lunghi, troppo lunghi e spesso diventano sei o sette per avere la sentenza definitiva del tribunale. In altre parole la situazione prevista adesso per legge punisce i coniugi oltre misura, facendo in molti casi perdere l'interesse ad avere una situazione legalmente definita per la lungaggine della norma, perché di solito, dopo cinque anni, si è avuta la possibilità di rifarsi un'altra esperienza, e le motivazioni per avere il divorzio sono meno pressanti. Due anni sono allo stato delle cose più che sufficienti per non compiere scelte affrettate o controproducenti. ~mpre In merito al divonlo, UPSI propone di abrogare I' «addebltalltà• prevista dal nuovo diritto di tllDUfl)la, soetenendo In 90Slama che In - caso si può parlare di aeparulooe per colpa di UD 9olo coniuge. Non le !JelDbn lrreallstlca questa considerazione? Assolutamente no! Il criterie della separazione per colpa semplicemente non esiste. Mi spiego; certo è facile oggi per qualsiasi magistrato trovare i termini giuridici per emettere una sentenza per colpa. Ma chi va a scavare sul serio nella dinamica della vita familiare di tutti i giorni per essere così sicuro delle colpe dell'uno e dell'innocenza dell'altro? Quante volte ci siamo trovati di fronte a situazioni sottaciute, ad equilibri tra coniugi basati su sfumature, su piccole cose che magari in quella situazione assumevano tutt'altra rilevanza? Quando viene meno I' affectio maritalis è semplicemente inutile cercare col bilancino del farmacista le percentuali di responsabilità. Certo i casi limite esistono, e noi proponiamo che per gli alimenti si·proceda secondo delle tabelle in base al reddito fissate per legge, cui il giudice 10 MARIA MAGNANI NOYA potrà derogare in caso di palese iniquità. Cltta l'attuale ~ lllll'aborto Il partito aodalJstapropone di aaitt CGII alcune modilkhe lqlolatlve, nel - di ravorlre wmpre più «la matemltà voluta e non c:oatta•. In tal - proponete l'obbllp di prestazloaJ lavontive ruort dall'oepedale per quel -- dlcl che -,o obiettori di coedeua. Non le pare UD criterio autoritario? Esiste un precedente nell'attuale legislazione che ci aiuta a capire: è quello dell'obiezione al servizio di leva. Se non si vuol prestare il servizio militare, si ha in alternativa la possibilità di espletare un servizio civile, che dura anche di più. E allora perché un cittadino, qualsiasi siano i motivi, che non vuole ottemperare ad una legge dello Stato non deve in altra maniera rendere egualmente il servizio per ilquale è retribuito? Ecco noi vogliamo rendere la possibilità al medico obiettore di scegliere tra diverse soluzioni, per evitare inoltre che negli ospedali i medici non obiettori si trovino con carichi di lavoro sproporzionati alle loro possibilità. A differenza della legge sul servizio militare non abbiamo introdotto l'esame per accertare l'obiezione di coscienza per il semplice fatto che ci pare assolutamente inutile. Ripe- ■.a-.rlll!!ll.a■ ......... to, i motivi dell'obiezione possono essere i più diversi. Quel che conta è l'eguaglianza nei fatti di tutti davanti la legge. Non le pare, OIIOl'evolec,he l'attuale obbllao di abortire In oopedale, e ,_, ad eaempio, col proprio modico di llduda complkhl le eme Invece di tacllltarie? Può esser vero, ma l'ospedalizzazione obbligatoria per l'aborto è un passaggio indispensabile per uscire dalla pericolosissima clandestinità in cui era la situazione sino a ieri. Quando si approvò la legge 194si discusse pure se aprire l'aborto ai privati. Ma la scelta che si fece è ancora quella giusta. Con quale schieramentopolltloo pe,,- sa di poter rarapprovare q.-e modlflche dal parlamento? Probabilmente ci troveremo difronte la stessa maggioranza parlamentare che ha elaborato la legge sul divorzio e quella dell'aborto. Anche se, ovviamente, non rifiutiamo a priori eventuali convergenze con altre forze politiche, quali la DC. Anzi stiamo anche lavorando in questo senso e proporremo ai partiti laici di discutere le nostre ipotesi appena il parlamento avrà licenziato la legge sulla violenza sessuale, quindi tr.1 un paio di mesi. Il nuovo indirizzo del Leviatano è in via Cicerone 44 00193 Roma telefono 38.41.55 2$MARZOJ9IJO
DOPO MAO I « ••• evviva il consumismo e la libertà!» CoN IL PASSARE DEI GIORni si vanno precisando i contorni del processo di demaoizzazione, formalizzato al recente Comitato centrale cinese che ha proceduto alla riabilitazione dell'ex Presidente Liu Shaoqi. È stato diffuso nelle librerie in 100.000 copie, immediatamente esaurite, un libro dal titolo Ricordi del compagno Liu; su tutti i giornali appaiono ogni giorno articoli e foto rievocativi del passato.rivoluzionario del rivale di Mao. E della scorsa settimana un dibattito svoltosi alla scuola di partito di Pechino, durante il quale il saggio di Liu, Come essere un buon comunista, è stato definito «parte integrante del pensiero di Mao Zedong» e patrimonio essenziale della tradizione ideologica del comunismo cinese. Contemporaneamente tutti i giornali hanno pubblicato, il 12 marzo, un articolo dello stesso Liu nel quale sono riassunti gli elementi essenziali del saggio sopra citato; accanto al saggio è stata poi pubblicata una foto di Liu del 1964 che lo vede seduto assieme a Mao e a Zhou Enlai. Mentre procede la riabilitazione di Liu e la sua condanna nel 1%8 viene definita come «la più grande montatura e il più vergognoso complotto della storia del Partito comunista cinese» (attribuito per il momento interamente a Lin Biao e alla «Banda dei quattro•), nello tesso tempo continua anche il ridimensionamento della figura di Mao. Dopo le notizie circolate nei giorni scorsi sulle presunte intenzioni di Mao di eliminare con la Rivoluzione culturale tutta la leadership del partito cinese, vi sono stati altri fatti estremamente significativi. Senza dare eccessivo peso alle notizie, pur vere, della rimozione di gran parte dei ritratti del «grande timoniere» in molte zone del Paese, vi IL LEVIATANO DA «DER SPIEGEL, sono anche segni più significativi. In particolare un articolo apparso _suun giornale i Shanghai (regno fino a ieri dei gruppi più estremisti) nel quale, per la prima volta, Mao viene paragonato (non però in termini elogiativi) a Stalin e si afferma che entrambi hanno messo in pericolo il comunismo creando lo stesso tipo di culto della personalità. «Sia in Unione Sovietica che in Cina, scrive il «Wenhui Bao•, vi è stata un'esagerazione dei ruoli personali e perfino una deificazione dei dirigenti, con il risultato di condurre alla situazione prevista da Lenin, secondo il quale tutto il sistema avrebbe rischiato, in questo modo, di andare in rovina». Contemporaneamente la stampa cinese ha aperto un altro fronte di iniziativa politico-propagandistica con una serie di articoli dedicati, se così si può dire, allo stato di fiducia del popolo nei confronti del sistema e dei suoi dirigenti. Il «Quotidiano del Popolo•, in particolare, invita con toni concilianti le giovani generazioni a ridare fiducia agli attuali dirigenti e indica nell'obiettivo delle «quattro modernizzazioni» (la vecchia strategia di Deng) il cammino che permetterà al sistema cinese di recuperare l'efficienza perduta e la fiducia delle masse. Tutti i giornali attribuiscono i guasti che hanno causato questo stato di crisi alla Banda dei quattro e ai loro accoliti e affermano che si sta procedendo ad eliminare dall'apparato quanti ancora vi si trovano nascosti e infiltrati in seguito agli errori degli anni bui dell'estremismo e delle persecuzioni degli onesti comunisti. Come esempio del ritorno degli «onesti comunisti» viene indicato la nomina del nuovo vicepresidente della scuola centrale del partito nella persona di An Ziwen. Egli era stato per oltre nove anni in carcere durante la Rivoluzione culturale in quanto legato personalmente e politicamente a Liu, del quale aveva sempre condiviso la politica. Appena nominato, An Ziwen ha diffuso una dichiarazione, ripresa e pubblicata dai principali giornali cinesi. di autocritica per la politica seguita dal PCC negli anni I927-37, che avrebbe visto episodi gravi di autoritarismo di paternalismo e di estremismo (in particolare nella rottura del fronte unito con il Kuomintang). Come valutare tutti questi segnali provenienti da Pechino, tra i quali non va certo dimenticato l'imminente viaggio del leader coIl
munista italiano Berlinguer, annunciato in questi giorni con gral!.- de rilievo da entrambe le parti? E senz'altro probabile che ci si trovi soltanto all'inizio di un lungo pro cesso di rivelazioni e correzioni di rotta destinato a durare a lungo e probabilmente a culminare nel prossimo congresso del partito cinese. Ma è anche probabile che la conclusione non sia una «demaoizzazione integrale» (così come in Unione Sovietica non vi è mai stata una destalinizzazione integrale), ma piuttosto un ridimensionamento della figura e del ruolo del leader cinese nella costruzione della Cina di oggi. Impegnato a ripristinare il ruolo del partito nella modernizzazione del Paese, l'attuale gruppo dirigente, nel quale assume sempre più peso il vecchio Deng, che continua a collocare suoi collaboratori nei posti-chiave, non può fare a meno integralmente della figura del Padre della patria senza incrinare pericolosamente anche le basi del suo potere. Può però farlo scende re di qualche gradino e collocargli accanto gli altri «padri» (in particolare Zhou e Liu) dei quali gli attuali dirigenti si sentono più diretti discendenti. Aldo G. Ricci MUGABE Divide et impera I PRIMI AITI DI GOVERNO DI Robert Mugabe nella sua qualità di primo ministro dello Zimbabwe sembrerebbe confermare l'ottimismo di quanti hanno pronosticato il successo del tentativo di integrazione tra le due comunità etniche del Paese. La nomina di Nkomo a ministro dell'interno del nuovo governo, così come la nomina di due bianchi, che già hanno avuto esperienze di governo con. Smith, alla guida di due dicasteri economici, sono altrettanti segni importanti del modo di procedere adottato da Mugabe. Significano anzitutto che egli non intende mo12 nopolizzare il controllo del Paese (associando il rivale Nkomo in un ministero essenziale e lasciando il generale Walls al comando dell'esercito) e intende utilizzare la esperienza economica e tecnica dei bianchi per la costruzione della nuova Rhodesia. Questa moderazione ha trovato conferma nella prima conferenza stampa del leader nero. Mugabe ha indicato come problema prioritario il rientro e la sistemazione dei profughi (oltre I milione su 5 milioni di abitanti) e ha sottolineato che non verranno operati cambiamenti che possano compromettere le strutture tecniche, economiche e amministrative del Paese. Mugabe ha anche annunciato l'utilizzazione delle terre incolte per sistemare i profughi, creandovi delle fattorie collettive; e ha concluso ringraziando i Paesi occidentali (in particolare Svezia, CEE, USA e Gran Bretagna) per gli aiuti economici promessi. Nonostante questa situazione tranquilla, molti osservatori tuttavia ritengono che la moderazione di Mugabe non potrà durare a lungo e che il Paese arriverà prima o poi all'ennesimo bagno di sangue, seguendo copioni già visti in altri Paesi africani. Non è certo facile fare previsioni a lungo termine. Si può comunque sottolineare che la democrazia inglese ha dato un'importante prova del suo vigore ideale vincendo una battaglia tattica che molti ritenevano persa in partenza. Se poi verrà vinta la guerra, e si avrà una vera e pacifica integrazione delle due comunità, allora si sarà veramente trattato di un fatto storico nuovo destinato a lasciare il segno nella storia dell'Africa. BRASILE Nel 1982, militari permettendo ... ML 1982, MIUTARI PERmettendo, il Brasile andrà alle urne, secondo gli impegni presi dal presidente Joao Figueiredo. In questa prospettiva sono in corso nel Paese una serie di trasformazioni nel sistema dei partiti delle quali è ancora difficile indicare con precisione le caratteristiche e gli sviluppi, ma che influiranno tuttavia sul futuro della «democrazia» brasiliana (che per il momento conviene ancora indicare tra virgolette). In particolare i partiti che si stanno organizzando sono il risultato dello scioglimento dei due partiti di regime che fino al novembre scorso hanno gestito le assemblee legislative (la Arena filogovernativo. e l'MDB di opposizione) e degli spezzoni di partiti sopravvissuti al regime militare di questi anni. li primo risultato della riforma è stato comunque quello di consolidare il partito governativo (che ha assunto il nome di Partito democratico sociale) che ha conservato tutti i suoi esponenti, sia su scala nazionale che regionale, mentre ha invece frantumato il partito di opposizione, anche per il ritorno in Brasile di molti leaders dell'opposizione da tempo in esilio. Dall'MDB sono nati: il PMDB (formato dai quadri tradizionali del partito); il PTB (Partito laburista brasiliano). ricostituito sotto la guida del vecchio leader Leone( Brizola che già svolse un ruolo importante nella storia del Brasile prima del golpe; il PT (Partito dei lavoratori) di ispirazione sindacalista e destinato probabilmente a fungere da polo d'attrazione perle forze di sinistra ancora escluse dalla riforma; e infine il PP (Partito popolare) formato dai moderati del vecchio partito, e particolarmente forte tra imprenditori e fi. nanzieri. Si tratta ancora di un'articolazione in buona parte tutta sulla carta, in quanto in molti casi a queste sigle non corrispondono né programmi precisi, né organizzazioni in grado di mobilitare forze sociali e di propagandare questi programmi. Ma nonostante questi limiti, il governo sembra deciso a procedere sulla strada della verifica elettorale, e i 45 milioni di elettori brasiliani si troveranno presto di fronte a questo nuovo sistema partitico creato in vitro, ma destinato probabilmente, nello sviluppo della battaglia politica, a divenire sempre meno asettico e pilotabile dal governo. 25 MARZO /98()
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